8. Alessandrinismo greco e romano.
Di questo meraviglioso giardino invernale della lingua e dell'arte ellenica, non si può fare a meno di dire quanto è necessario per l'intelligenza della letteratura romana di quest'epoca e delle epoche successive.
La letteratura alessandrina ha la sua base nel tramonto del puro idioma ellenico, che dal tempo di Alessandro il Grande in poi fu richiamato a vita da un insufficente gergo, sorto principalmente dal contatto del dialetto macedone con quello di parecchie schiatte greche e barbare; o, per essere più esatti, la letteratura alessandrina è sorta in generale dalla decadenza della nazione ellenica, la quale, per formare la monarchia mondiale alessandrina e il regno dell'ellenismo, doveva perire e perì nella sua popolare individualità. Se il regno universale di Alessandro avesse avuto consistenza, in luogo dell'antica letteratura nazionale e popolare sarebbe venuta alla luce una letteratura ellenica di nome, ma essenzialmente snazionalizzata e in certo modo chiamata a vita dall'alto al basso, ma sopratutto si sarebbe presentata cosmopolita e dominante sul mondo intiero; senonchè, come il regno d'Alessandro dopo la sua morte si sconnesse, così si ecclissarono rapidamente anche i principî di questa letteratura.
La nazione greca però, non apparteneva per ciò meno, con tutto quanto essa aveva avuto, con la sua nazionalità, la sua lingua e le sue belle arti, al tempo passato. La letteratura greca fu coltivata anche dopo morta soltanto in un circolo relativamente ristretto non di uomini colti, ché di questi più non se ne rinvenivano, ma di uomini dotti; della ricca sua eredità si fece con dolorosa gioia e con arida e minuziosa ricerca l'inventario, e il sentimento vivo e la dottrina morta furono spinti al punto d'avere l'apparenza della produttività.
Questa postuma produttività è il cosiddetto alessandrinismo. Esso è in sostanza della stessa natura di quella erudita letteratura la quale, facendo astrazione dalle nazionalità romaniche viventi e dai loro volgari idiomi, crebbe durante il decimoquinto e decimosesto secolo in un dotto ciclo filologico-cosmopolita come tardiva fioritura artificiale della tramontata antichità; l'antitesi fra il greco classico ed il greco volgare dei tempi dei successori d'Alessandro è bensì meno aspra, ma non propriamente diversa da quella che passa tra il latino del Manuzio e l'italiano del Macchiavelli.
L'Italia sino allora non si era accostata nell'essenziale all'alessandrinismo. L'epoca della sua relativa fioritura fu quella che corse poco prima e poco dopo la prima guerra punica; senonchè Nevio, Ennio, Pacuvio e tutti i cultori della letteratura nazionale romana sino a Varrone e a Lucrezio, in tutti i rami delle produzioni poetiche, non eccettuata la poesia didascalica, non si accostarono ai loro contemporanei greci, o ai loro più prossimi predecessori, ma seguirono senza eccezione Omero, Euripide, Menandro ed altri maestri della letteratura greca viva e popolare.
La letteratura romana non è stata mai fresca e nazionale; ma finchè esistette un popolo romano, i suoi scrittori si attennero istintivamente ai tipi vivi popolari, e, sebbene non copiassero sempre bene, nè dai migliori, si attennero per lo meno agli originali.
La letteratura greca sorta dopo Alessandro, trovò i primi imitatori romani fra i contemporanei di Cicerone e di Cesare, non potendovisi comprendere gli scarsi principi del tempo di Mario, e allora l'alessandrinismo romano si propagò con precipitosa rapidità.
Ciò è dovuto in parte a cause esterne. L'aumentato contatto coi Greci, e particolarmente i frequenti viaggi dei Romani nelle province elleniche e l'affluenza dei letterati greci a Roma formarono, com'era naturale, anche in Italia un pubblico che gustava la letteratura greca della giornata, le poesie epiche ed elegiache, gli epigrammi e le favole milesie; mentre poi, come abbiamo già detto, la poesia alessandrina entrò a far parte dell'istruzione della gioventù italica, cioè reagì tanto maggiormente sulla letteratura latina, in quanto questa fu e rimase sempre essenzialmente dipendente dalla cultura scolastica ellenica. Si trova qui persino un legame immediato della nuova letteratura romana colla nuova letteratura greca: il già accennato Partenio, uno dei più notori elegiaci alessandrini, aprì verso il 700 = 54 in Roma una scuola di letteratura e di poesia, ed esistono ancora degli estratti, in cui egli fornì ad uno dei suoi più distinti scolari la materia per elegie latine erotico-mitologiche secondo la ricetta alessandrina.
Ma non erano soltanto queste occorrenze accidentali che davano vita all'alessandrinismo romano; esso era piuttosto un prodotto, forse non costante, ma assolutamente inevitabile, dello sviluppo politico e nazionale di Roma.
Come l'Ellade si era sciolta nell'ellenismo, così ora il Lazio si scioglieva nel romanismo; lo sviluppo nazionale d'Italia crebbe fuori misura e s'infranse nello stesso modo nello stato mediterraneo di Cesare, come lo sviluppo ellenico nel regno orientale di Alessandro.
Se d'altronde il nuovo stato si fondava sulla circostanza che le due potenti fiumane della nazionalità greca e latina, dopo aver corso per secoli entro letti paralleli, ora finalmente si riunivano, la letteratura italica doveva essa pure, non soltanto, come aveva fatto fino ad ora, cercare un punto di sosta nella letteratura greca in generale, ma mettersi a livello appunto colla letteratura greca del giorno, cioè con l'alessandrinismo.
Col latino scolastico, col numero completo dei classici, col circolo esclusivo dei «cittadini» lettori dei classici, la letteratura popolare latina era morta, essa aveva toccato il suo termine; sorse in sua vece una letteratura dello stato, fatta adulta artificialmente a mo' di epigonismo, che non si basava su una determinata nazionalità, ma che annunziava in due lingue il vangelo universale dell'umanità e che dal lato intellettuale dipendeva assolutamente (e ne era conscia essa stessa) dall'antica letteratura nazionale ellenica, e, per rispetto alla lingua, in parte dalla ellenica e in parte dall'antica letteratura popolare romana.
Questo non era progresso. La monarchia mediterranea di Cesare era bensì una creazione grandiosa, e, quel che è più, una creazione necessaria; ma essa prese vita dall'alto e perciò non si rinveniva nulla di quella freschezza popolare e di quella esuberante forza nazionale, che sono proprie delle repubbliche più giovani, più circoscritte, più naturali, e che anche lo stato d'Italia del sesto secolo aveva potuto mostrare.
Il tramonto della nazionalità italica, che trovò il suo termine nella creazione di Cesare, ruppe il diaframma della letteratura. Chiunque abbia un sentimento per l'intima affinità dell'arte con la nazionalità si staccherà sempre da Cicerone e da Orazio per rivolgersi a Catone e a Lucrezio; e soltanto chi si formò un concetto pedagogico della storia e della letteratura, concetto ormai di vecchia data in questo campo, potè chiamare di preferenza età dell'oro l'epoca dell'arte, che ebbe principio con la nuova monarchia.
Se però l'alessandrinismo romano ellenico dei tempi di Cesare e di Augusto deve cedere il passo alla più anziana letteratura nazionale, per quanto imperfetta essa sia, esso è per contro decisamente superiore all'alessandrinismo del tempo dei successori di Alessandro, come il durevole edificio di Cesare è superiore alla effimera creazione di Alessandro.
Sarà più tardi dimostrato come la letteratura del tempo di Augusto, confrontata con quella affine dei tempi dei successori di Alessandro, sia stata molto meno filologica e molto più politica, e come perciò essa abbia esercitato nelle più alte sfere della società una influenza molto più durevole e generale dell'alessandrinismo greco.