12. Aquilio in Asia.
Il governo romano, richiesto di soccorsi personalmente dai re Ariobarzane e Nicomede, mandò nell'Asia minore, per sostegno del governatore Lucio Cassio là residente, il consolare Magno Aquilio, ufficiale provato nella guerra cimbra e sicula; però non come generale alla testa di un esercito, ma come ambasciatore; e ingiunse agli stati clienti asiatici, e specialmente a Mitridate, di prestare in caso di bisogno aiuto con le armi. Accadde appunto come due anni prima.
Magno Aquilio adempì l'incarico affidatogli con l'aiuto del piccolo corpo romano del quale disponeva il governatore della provincia d'Asia e col contingente dei Frigi e dei Galati; il re Nicomede ed il re Ariobarzane salirono nuovamente sul loro trono vacillante; Mitridate si sottrasse con vari pretesti all'ingiunzione di dare un contributo di truppe, però egli non solo non oppose aperta resistenza ai Romani, ma il pretendente bitinico, Socrate, venne anzi ucciso per ordine suo (664 = 90).
Era una strana complicazione. Mitridate era perfettamente convinto che non poteva nulla in campo aperto contro i Romani, e che non doveva arrivare ad un'aperta rottura e ad una guerra con essi.
Se egli dunque non fosse stato deciso in questo modo, nessun altro momento più favorevole di questo si sarebbe trovato per incominciare la lotta appunto allora.
Quando Aquilio penetrò in Bitinia ed in Cappadocia, l'insurrezione italica era all'apogeo della sua potenza e poteva incoraggiare anche i deboli a dichiararsi contro Roma: pure Mitridate lasciò passare inutilmente l'anno 664 = 90. Ma nondimeno egli continuò tenacemente e attivamente il suo progetto della politica della pace ad ogni costo, che con quella delle conquiste in pari tempo da lui perseguite era certamente insostenibile, e dimostra soltanto una volta di più che Mitridate non apparteneva ai veri uomini di stato, e non sapeva nè decidersi alla lotta come il re Filippo nè adattarsi come il re Attalo, ma proprio alla maniera dei sultani ondeggiava eternamente qua e là tra l'avida brama di conquista ed il sentimento della propria debolezza.
Ma anche così i suoi atti si comprendono solo se ricordiamo che Mitridate aveva imparato a conoscere con un'esperienza di venti anni la politica romana di allora.
Egli sapeva molto bene che il governo romano era tutt'altro che bellicoso, anzi che esso, avuto riguardo al serio pericolo che ogni generale famoso preparava al suo dominio, e con la recente memoria della guerra cimbra di Mario, temeva la guerra ancor più di Mitridate stesso, se fosse possibile.
In questo senso egli agì. Non si peritò di operare in una maniera che avrebbe dato ad ogni governo energico e non legato da considerazioni egoistiche, cento volte cagione e occasione ad una dichiarazione di guerra; ma egli evitò accuratamente un'aperta rottura che avrebbe posto il senato in quella necessità.
Appena questo mostrava di voler fare sul serio, egli retrocedeva tanto davanti a Silla come davanti ad Aquilio; indubbiamente egli sperava di non trovarsi sempre di fronte a generali energici, e che anche lui come Giugurta troverebbe il suo Scauro e il suo Albino.
Bisogna confessare che questa speranza non era insensata, benchè però l'esempio di Giugurta avesse dimostrato come fosse irragionevole di confondere la corruzione di un capitano romano e quella di un esercito romano con la sopraffazione del popolo romano.
Così stavano le cose, tra la pace e la guerra, e pareva che per molto tempo ancora avrebbero continuato a trascinarsi nella stessa maniera.