26. Il lusso della tavola.
Ma nessun genere di lusso fioriva quanto il più basso, cioè quello della tavola. Tutta l'occupazione e tutta la vita nelle ville si riduceva esclusivamente al pranzare; non solo si avevano diverse sale da pranzo per l'inverno e per l'estate, ma si faceva servire da pranzo anche nelle gallerie di quadri, nella camera delle frutta, nell'uccelliera o in un padiglione innalzato nel parco della selvaggina intorno alla quale, quando un «Orfeo» pagato apposta appariva in costume teatrale soffiando nel corno, accorrevano a frotte gli ammaestrati capriuoli e i cinghiali.
Così si provvedeva alla decorazione, ma ciò che più importava era la sostanza. Non solo il cuoco era un gastronomo patentato, ma spesso il padrone stesso era il maestro dei suoi cuochi. Da lungo tempo l'arrosto era stato trascurato pei pesci di mare e per le ostriche; ora erano completamente banditi dalle buone mense i pesci italici di acqua dolce ed erano considerati quasi comuni le ghiottonerie e i vini italici. Già d'allora nelle feste popolari, oltre all'italico Falerno, si distribuivano tre sorta di vini forestieri – di Sicilia, di Lesbo e di Chio – mentre una generazione prima, anche nei grandi pranzi, bastava mescere una sola volta il vino greco; nella cantina dell'oratore Ortensio si trovava un fondo di 10.000 anfore di vino forestiero.
Non sorprendeva perciò che i vinaiuoli italici incominciassero a lamentarsi della concorrenza del vino delle isole greche. Nessun naturalista sa investigare con più zelo i paesi per trovare nuovi animali e nuove piante di quello che facessero i ghiottoni di quel tempo per trovare nuove leccornie[20].
Se poi l'ospite, per prevenire le conseguenze della sua intemperanza, dopo un banchetto prendeva un vomitivo, nessuno più si meravigliava.
Lo stravizio diveniva in tutti i generi così sistematico e così goffo che esso aveva i suoi professori i quali vivevano insegnando il vizio, teoricamente e praticamente.
Non sarà necessario soffermarci più a lungo su questo triste quadro di monotona varietà; tanto più che anche in questo campo i Romani non erano affatto originali e si limitavano a somministrare una copia ancora più esagerata e più insulsa del lusso ellenico orientale. Naturalmente Plutone ingoia i suoi figli come li ingoia Saturno; la concorrenza per tutti quegli oggetti, per la massima parte frivoli, che eccitavano l'avidità dei nobili, ne spinse tanto alto i prezzi che coloro i quali seguivano la corrente distrussero in breve tempo i più colossali patrimoni, e anche coloro i quali seguivano soltanto per punto d'onore l'andazzo comune, videro che l'avita e solida loro sostanza diminuiva rapidamente. La candidatura per il consolato, ad esempio, era la via principale per condurre alla rovina le case più cospicue, ed il gioco, le costruzioni sontuose e altre passioni dilettevoli ma dispendiose, facevano il resto.
Le principesche ricchezze di quel tempo erano superate soltanto dai debiti ancor più principeschi.
Cesare, a deduzione fatta del suo attivo, doveva nel 692 = 62, 25 milioni di sesterzi (L.6.705.000), Marc'Antonio all'età di 24 anni, aveva contratto debiti per 6 milioni di sesterzi (L. 1.608.750) e 14 anni più tardi per 40 milioni (L. 10.725.000); Curione 60 milioni di sesterzi (L. 16.087.500); Milone 70 milioni (L. 18.768.750). Come questa vita di dissipazione e di maneggio del mondo nobile romano fosse basata in generale sul credito lo prova il fatto che per i prestiti di parecchi concorrenti al consolato una volta l'interesse salì in Roma improvvisamente dal 4 all'8%.
L'insolvibilità invece di portare per conseguenza alla vendita oppure alla liquidazione, ristabilendo così almeno nuovamente una situazione chiara, era generalmente tirata in lungo dal debitore quanto gli era possibile; invece di alienare i suoi averi, e specialmente i suoi fondi, egli continuava a far debiti e a darsi l'apparenza del ricco, finchè il crac veniva, ancor più terribile, e si facevano gli incanti, come fu ad esempio il caso di Milone, in cui i creditori ricevettero poco più del 4% delle somme prestate.
In questo rapido passaggio dalla ricchezza al fallimento e in questi sistematici raggiri, naturalmente nessuno guadagnava se non il freddo banchiere, il quale conosceva se doveva dare o rifiutare il credito. Così le condizioni del credito ritornavano quasi al medesimo punto in cui erano state nei peggiori tempi della crisi sociale del quinto secolo; i possessori nominali dei fondi erano per così dire gli affittavoli precari dei loro creditori; i debitori erano soggetti servilmente ai loro creditori così che i minori comparivano nel loro seguito come i liberti, e i più ragguardevoli parlavano e votavano persino in senato secondo i cenni del loro creditore, od erano anche pronti persino a dichiarare guerra alla proprietà, o a terrorizzare i loro creditori per mezzo di minacce od anche di liberarsene per mezzo di complotti o della guerra civile.
Su queste circostanze si basava la potenza di Crasso; dalle medesime ebbe origine la sollevazione di Cinna, il cui segnale fu «il libero foglio», ed ancora più decisamente quelle di Catilina, di Celio, di Dolabella, perfettamente simili a quelle battaglie dei possidenti e dei nullatenenti che un secolo prima commovevano il mondo ellenico.
In condizioni economiche così sconcertate, era nella natura delle cose che ogni crisi finanziaria e politica cagionasse la più terribile confusione; e non occorre dire che i soliti fenomeni, la scomparsa, cioè, del capitale, l'improvviso deprezzamento del terreno, gli innumerevoli fallimenti ed una quasi generale insolvenza si presentassero anche ora, durante la guerra civile, appunto come durante la guerra sociale e la mitridatica.
Che in tali condizioni la morale e la vita familiare fossero divenute anticaglie in tutte le classi della società si capisce facilmente. Essere povero non era più la peggiore ignominia nè il peggiore delitto, ma l'unico. Per danaro l'uomo di stato vendeva lo stato, il cittadino la sua libertà; per danaro si vendeva la carica di ufficiale come il voto del giurato; per danaro si vendeva la nobildonna come la prostituta; le falsificazioni dei documenti e i falsi giuramenti erano divenuti così comuni che un poeta popolare di quel tempo chiama il giuramento un «cerotto pei debiti». Si era dimenticato che cosa fosse onestà; colui che respingeva un atto di corruzione non era più tenuto per un uomo onesto, ma per un nemico personale. La statistica criminale di tutti i tempi e di tutti i paesi offrirà difficilmente il riscontro ad un quadro di orrori di così svariati, di così terribili e così snaturati delitti, come ci svela il processo di Aulo Cluenzio nel grembo di una delle più ragguardevoli famiglie di una città rurale italica.
Ma quanto più nel fondo della vita plebea si raccoglieva sempre più velenosa e sempre più profonda la melma, altrettanto più tersa e lucente si stendeva sopra la superfice la vernice di fini costumi e di generale cortesia. Tutto il mondo si faceva visita, così che nelle case ragguardevoli diveniva già necessario di introdurre, in un certo ordine stabilito dal signore, o, per l'occasione, anche dallo stesso cameriere, le persone che ogni mattina si presentavano alla levata; ed anche di concedere solo alle più distinte un'udienza particolare, sbrigando le altre parte in gruppi, parte finalmente in massa, nella quale separazione Caio Gracco, anche per questo iniziatore della monarchia, deve essere stato il primo.
Voga non dissimile da quella delle visite di cortesia acquistò pure lo scambio cerimonioso di lettere; le lettere «d'amicizia» tra persone che non avevano tra loro nè rapporti personali nè affari, varcavano mari e monti, e per contro le lettere propriamente e formalmente d'affari appaiono ora quasi soltanto quando lo scritto è diretto ad una corporazione.
Nello stesso modo agli inviti a pranzo, ai consueti regali di capo d'anno, alle feste di famiglia fu tolto il loro carattere e furono cambiate quasi in pubbliche solennità; la morte stessa non dispensava da questi riguardi gli innumerevoli «affini», ma per essere morto convenientemente il romano doveva aver pensato ad ognuno di essi almeno con un ricordo.
Appunto come succede in certi circoli del nostro mondo di borsa, nella Roma di quei tempi si era così completamente perduta la vera intimità e l'amicizia domestica, che l'insieme dei rapporti commerciali ed amichevoli si mascherò con queste insensate formalità e con fiori di retorica, e poi coll'andare del tempo, invece della vera amicizia, potè subentrare quella larva la quale non occupava l'ultimo posto tra gli spiriti infernali di ogni specie aleggianti sopra le proscrizioni e le guerre civili di quel tempo.