22. Costruzioni nella capitale.
Le costruzioni della capitale e la cura ad esse connessa per le istituzioni di pubblica utilità, presero in generale, per opera di Cesare, che univa in sè la passione di fabbricare del romano e quella dell'organizzatore, uno slancio improvviso che non solo svergognò il malgoverno degli ultimi tempi dell'anarchia, ma anche tutto ciò che l'aristocrazia romana aveva fatto nel suo tempo migliore; cosicchè il genio di Cesare lasciò dietro di sè gli onesti sforzi dei Marci e degli Emili. Non era soltanto la vastità degli edifici in se stessa e le grandi somme impiegatevi, con cui Cesare sorpassò i suoi predecessori, ma è il concetto del vero uomo di stato, sollecito della pubblica utilità, che distingue l'opera sua per i pubblici istituti di Roma da ogni altra simile del passato.
Egli non costruì come i suoi successori, templi ed altri edifici di lusso, ma sfollò il foro di Roma sul quale affluivano ancora le adunanze dei cittadini, i tribunali supremi, la borsa, il traffico giornaliero degli affari, come il convegno giornaliero degli oziosi, per lo meno delle assemblee cittadine e dei tribunali, facendo costruire per quelle un nuovo locale a Saepta Julia, nel campo di Marte e per questi un foro speciale, il Foro Giulio tra il Campidoglio ed il Palatino.
Analoga a questa è la sua disposizione che per i bagni della capitale venissero somministrati annualmente tre milioni di libbre di olio provenienti per la maggior parte dall'Africa, mettendoli così in grado di distribuire gratuitamente ai bagnanti l'olio necessario per le unzioni del corpo, eccellente misura di pulizia igienica e di nettezza, fondata, secondo l'antica dietetica, essenzialmente sui bagni e sulle unzioni.
Ma queste grandiose istituzioni erano solo il principio di una completa trasformazione di Roma. Già erano fatti i piani per un nuovo palazzo municipale, per un nuovo magnifico mercato, per un teatro da gareggiare con quello di Pompeo, per una pubblica biblioteca latina e greca secondo il modello di quella di Alessandria perdutasi da poco – il primo stabilimento di questo genere in Roma –, finalmente per un tempio a Marte, che per ricchezza e magnificenza avrebbe dovuto superare tutto ciò che era stato fatto sino allora.
Più geniale ancora era il piano di costruire un canale attraverso le Paludi Pontine, dirigendone le acque a Terracina, poi di cambiare il corso inferiore del Tevere ed invece che dall'odierno Ponte Molle, tra il Vaticano ed il campo di Marte, dirigerlo piuttosto verso Ostia intorno al campo Vaticano ed al Gianicolo.
Per mezzo di questo piano gigantesco veniva da un lato bandito il più pericoloso nemico della capitale, la malaria dei dintorni, dall'altro venivano moltiplicate d'un colpo le possibilità divenute ormai limitatissime di edificare nella capitale, in modo che il campo Vaticano, posto sulla sponda sinistra del Tevere, poteva rimpiazzare il campo di Marte, e il vasto campo di Marte venir destinato per pubblici e privati edifici, mentre nello stesso tempo si otteneva un porto di mare sicuro, così ansiosamente sospirato.
Pareva che l'imperatore volesse spostare monti e fiumi ed osasse perfino di gareggiare con la natura. Ma per quanto la città di Roma guadagnasse col nuovo ordinamento in comodità ed in magnificenza, la sua supremazia politica andava, come già si disse, appunto per questo, irremissibilmente perdendosi.
Che lo stato romano dovesse essere una stessa cosa con la città di Roma si era rivelato, con l'andar del tempo, sempre più innaturale ed insensato; il concetto era però così intimamente connesso coll'ente della repubblica romana, che esso non poteva andare in rovina prima di questa.
Questo concetto, ad eccezione forse di alcune finzioni legali, fu abbandonato del tutto soltanto nel nuovo stato di Cesare, e il nome della capitale fu posto legalmente sulla stessa linea con tutte le altre municipalità, e difatti Cesare, qui come dappertutto, sollecito non solo ad ordinare la cosa, ma a chiamarla anche ufficialmente col suo giusto nome, promulgò il suo regolamento comunale italico, senza dubbio con l'intenzione che servisse nel tempo stesso per la capitale e per gli altri comuni urbani.
Si può aggiungere che Roma, appunto perchè come capitale non era adatta ad un municipio attivo, stava realmente persino indietro agli altri municipi del tempo degli imperatori. La Roma repubblicana era una spelonca di masnadieri, ma essa era al tempo stesso lo stato; la Roma della monarchia, benchè cominciasse ad ornarsi con tutte le magnificenze delle tre parti del mondo ed a scintillare di oro e di marmi, non era però nello stato altro che la reggia confusa con le case dei poveri, cioè un male necessario.