10. Armamenti.
Così, pochi mesi dopo la morte di Druso, nell'inverno del 663-4 = 91-90) cominciò, come si vede raffigurata in una moneta degli insorti, la lotta tra il toro sabellico e la lupa romana. Dalle due parti si affrettavano gli armamenti; in Italia si raccoglievano armi, armati e denaro; in Roma dalle province, specialmente dalla Sicilia, si trasportavano le necessarie provvigioni e per ogni evento si munivano le mure della città da lungo tempo trascurate.
Le forze dei contendenti erano in certo qual modo eguali. I Romani sostituirono nelle file i contingenti italici con una più ragguardevole leva dei cittadini e degli abitanti già quasi interamente romanizzati dei paesi celti cisalpini, dei quali solo nell'esercito della Campania ne militavano 10.000[7]; parte col mezzo dei contingenti numidi e di altre nazioni d'oltremare, e con l'aiuto delle città greche dell'Asia minore radunarono una flotta da guerra[8]. Dalle due parti furono mobilizzati circa 100.000 uomini[9], senza contare i presidî; e per il valore dei soldati, per la tattica di guerra e per le armi gli Italici non erano inferiori al Romani,
Era difficile agli insorti e ai Romani condurre la guerra essendo il territorio insorto molto esteso e comprendendo un gran numero di fortezze che parteggiavano per Roma, cosicchè da un lato gli insorti si vedevano costretti a combinare una lunga e dettagliata guerra di fortezze mantenendo insieme un esteso cordone di confine, dall'altro ai Romani non rimaneva che combattere al tempo stesso in tutte le provincie insorte l'insurrezione che non aveva in alcun luogo un centro.
Il paese insorto si divideva militarmente in due parti; nella settentrionale che dal Piceno e dagli Abruzzi si estendeva sino al confine nordico della Campania e comprendeva i distretti ove si parlava la lingua latina, presero il supremo comando per gli Italici il marsico Quinto Silone, pei Romani Publio Rutilio Lupo, entrambi come consoli; nella meridionale, che comprendeva la Campania, il Sannio e in generale le provincie ove si parlava la lingua sabellica, teneva come console degli insorti il supremo comando il sannita Caio Papio Mutilo, come console romano Lucio Giulio Cesare. Entrambi i duci avevano sotto di sè dei legati, cioè quello degli Italici sei, quello dei Romani cinque, e ciascuno di questi dirigeva in un determinato distretto l'attacco e la difesa, essendo solo gli eserciti consolari destinati ad agire più liberamente ed a cimentarsi in una giornata campale.
I più ragguardevoli generali romani, come Caio Mario, Quinto Catulo ed i due consolari sperimentati nella guerra spagnola, Tito Didio e Publio Crasso, si offersero ai consoli per tali uffici; e quantunque gli italici non avessero nomi così celebri da contrapporre, il successo provò che i loro capi non erano militarmente inferiori al generali romani.
In questa guerra del tutto discentrata, l'offensiva si teneva in generale dai Romani, ma nemmeno essi si affrettavano ad un combattimento decisivo.
Sorprende che i Romani non raccogliessero le loro truppe per affrontare con forze preponderanti gli insorti, e che anche questi non facessero un tentativo d'invadere il Lazio e di gettarsi sulla capitale nemica, però noi conosciamo troppo poco le reciproche condizioni per giudicare se e quale probabilità vi fosse per agire diversamente, e se a questa mancanza di unità nel condurre la guerra contribuisse la rilassatezza del governo romano da una parte e la mancanza di unione tra i comuni federali dall'altra.
È poi naturale che con questo sistema si alternassero vittorie e sconfitte, ma non si giungesse mai ad alcunchè di decisivo; nè è meno vero che di una guerra simile, ridotta ad una serie di combattimenti di singoli corpi di truppa, che nel tempo stesso operavano ora separati, ora congiunti, invano si cerca una immagine fedele nelle troppo difettose nostre tradizioni.