7.Risultati dell'economia rurale.
Per apprezzare in qualche modo i risultati di questa economia rurale è necessario considerare lo stato dei prezzi e particolarmente dei prezzi del grano di quei tempi. Essi, per confronto, son bassi in modo da far stupire; il che, in gran parte, era colpa del governo romano, il quale, in questa vitale questione si lasciò trascinare ai più terribili errori non tanto per la sua poca preveggenza, quanto per favorire in un modo ingiustificabile i proletari della capitale a spese dei contadini italici.
Qui si trattava, anzitutto, della concorrenza tra il grano d'oltremare e l'italico. Il frumento, che si offriva dai provinciali al governo romano, parte gratuitamente e parte verso un tenue compenso, era, da questo, in parte somministrato sul luogo agli impiegati romani e per la sussistenza dell'esercito, in parte ceduto agli appaltatori delle decime in modo che questi lo pagassero in contanti, e assumessero di spedirne una certa quantità sia a Roma, sia in qualunque luogo dove se ne fosse sentito il bisogno.
A cominciare dalla seconda guerra macedone, gli eserciti romani erano mantenuti totalmente col grano proveniente d'oltremare, e sebbene ciò riuscisse vantaggioso all'erario dello stato, chiudeva un'importante sorgente all'agricoltura italica per lo spaccio dei suoi prodotti. Ma questo era ancora il meno. Al governo, il quale, come era giusto, aveva da lungo tempo dedicata la sua vigilanza ai prezzi dei cereali e, pei casi di possibili carestie, ne aveva in tempo utile fatte le occorrenti provviste all'estero, interessava, da quando gli invii di grano dai sudditi gliene fornivano ragguardevoli quantità, e probabilmente più ragguardevoli di quanto occorresse in tempi di pace, e dacchè gli si offriva inoltre l'opportunità di acquistarne all'estero a modico prezzo qualsiasi quantitativo, inondarne i mercati della capitale ed esitarlo a prezzi tanto bassi, che di fronte ai prezzi italici, si potevano dire vilissimi.
Già negli anni dal 551 al 554=203-200, e, come sembra, all'origine per disposizione di Scipione, fu per cura della repubblica venduto ai cittadini di Roma il frumento spagnuolo e africano in ragione di ventiquattro e persino di dodici assi (circa L. 3 e L. 1,50) allo staio prussiano (circa 54 litri o sei moggi). Alcuni anni dopo (558=196) si distribuirono nella capitale, a quest'ultimo vilissimo prezzo, oltre 160.000 staia prussiane (circa 86.400 ettolitri) di grano siciliano.
Invano Catone inveiva contro questa poco accorta politica, in cui s'immischiava l'incipiente demagogia; e queste straordinarie, ma probabilmente frequenti distribuzioni di grano al di sotto del prezzo del mercato a mezzo del governo, o di singoli magistrati, furono il germe delle leggi sui cereali che comparvero più tardi.
Ma quando pure questo grano d'oltremare non pervenisse ai consumatori in questo modo straordinario, esso esercitava però una grande influenza sull'agricoltura italica.
Le grosse partite di grano, che il governo smerciava agli appaltatori delle decime, erano non solo cedute a così basso prezzo, che essi, rivendendole, le potevano dare un prezzo minore di quello della produzione, ma era probabilmente nelle province, e particolarmente in Sicilia, sia per le felici condizioni del suolo, sia per le estesissime tenute condotte secondo il sistema cartaginese colle braccia degli schiavi, in generale ragguardevolmente più basso che in Italia; la spesa di trasporto del frumento siciliano e sardo nel Lazio era poi per lo meno tanto economica, se non più, quanto quella del trasporto dall'Etruria, dalla Campania e dall'Italia settentrionale. Nell'andamento naturale delle cose era quindi necessario che il grano d'oltremare affluisse nella penisola e facesse ribassare il prezzo del grano indigeno.
Nello sconvolgimento prodotto dal deplorevole sistema economico degli schiavi, sarebbe forse stata giustificabile l'imposizione di un dazio di protezione sul grano d'oltremare a favore di quello italico, ma pare avvenisse piuttosto il contrario e che, col pretesto di favorire l'importazione del grano oltremarino in Italia, sia stato messo in pratica nelle province un sistema proibitivo; poichè, se ai Romani fu concesso soltanto per particolare favore il prelevamento di una quantità di grano dalla Sicilia, ragion vuole, che l'esportazione delle granaglie dalle provincie sia stata libera soltanto per l'Italia, e che quindi ci sia stato un monopolio del grano d'oltremare per la madre patria.
Gli effetti di questo sistema sono evidenti. Un'annata di una straordinaria fertilità, come lo fu il 504=250, in cui nella capitale sei moggi romani (circa 54 litri) di spelta non costavano più di 3/5 di denaro (50 cent.) e si avevano allo stesso prezzo 180 libbre romane (circa 61 chilog.) di fichi secchi, 60 libbre d'olio (circa 20 chilog.), 72 libbre di carne (circa 24 chilog.) e 6 conci di vino (circa 19 litri e 1/2), non si deve certamente prendere per norma appunto per la sua eccezionalità; ma vi sono altri fatti che parlano più chiaramente.
Già fin dai tempi di Catone la Sicilia era chiamata il granaio di Roma. Negli anni di grande fertilità si vendeva il grano siciliano e sardo nei porti di mare italici per il costo del trasporto. Nei paesi più fertili in cereali, nell'odierna Romagna e in Lombardia, ai tempi di Polibio, si pagava, pel vitto e per l'alloggio nelle osterie, in media un mezzo asso al giorno (2 cent. e 1/2); lo staio di frumento costava allora mezzo danaro (40 cent. circa). Quest'ultimo prezzo, che è il dodicesimo del consueto prezzo normale[9], prova con incontestabile chiarezza, che i cereali italiani non avevano assolutamente vendita; in conseguenza di che, tanto il grano quanto il terreno che lo produceva, erano deprezzati.