5.Religione nazionale e incredulità.
Come l'antica e schietta fede fosse in questo campo ancora viva negli Italici, lo provano chiaramente l'ammirazione e lo stupore che questo problema della fede italica destava tra i contemporanei greci. In occasione del conflitto con gli Etoli fu detto dal supremo duce dei Romani che durante la battaglia egli non aveva fatto altro che pregare e fare sacrifici come un sacerdote.
Polibio, invece, colla sua quasi triviale assennatezza, ammonisce i suoi compatrioti sul vantaggio politico di tale fede e li avverte che lo stato non può comporsi soltanto di uomini savi, e che simili cerimonie sono assai opportune per la moltitudine.
Ma se in Italia c'era ancora una religione nazionale, ciò che nell'Ellade era da lungo tempo un soggetto archeologico, essa però già visibilmente cominciava a degenerare in teologia.
L'incipiente torpore della fede non si manifesta forse in nessun caso così evidente quanto nelle cambiate condizioni economiche del culto e del sacerdozio.
Il pubblico servizio degli dei diveniva non solo sempre più prolisso, ma quello che più contava, sempre più dispendioso. Ai tre collegi antichi degli auguri, dei pontefici e dei conservatori degli oracoli fu nel 558=196 aggiunto un quarto, quello dei tre banchettatori (tresviri epulones) coll'unico importante scopo di sopraintendere ai banchetti degli dei.
È giusto che banchettino non solo gli dei, ma anche i loro sacerdoti; ma per ciò non occorrevano delle nuove istituzioni poichè tutti i collegi si occupavano con zelo e con devozione dei loro banchetti.
Oltre ai pranzi sacerdotali v'erano anche le immunità sacerdotali.
I sacerdoti reclamavano persino, in epoche di gravi tribolazioni, il diritto d'esenzione dalle pubbliche gravezze, e soltanto dopo molte spiacevoli controversie si adattarono al pagamento delle imposte arretrate (558=196).
La religione diventava un articolo sempre più dispendioso tanto per la repubblica quanto per l'individuo.
Presso i Romani, come oggi nei paesi cattolici, era invalso l'uso di fondare istituti e di assumere obblighi pecuniari permanenti per scopi religiosi.
Queste istituzioni cominciarono a pesare estremamente sulle sostanze, particolarmente dacchè furono considerate dalla suprema autorità spirituale, che era nello stesso tempo la suprema autorità giudiziaria della repubblica, cioè dai pontefici, un onere effettivo, trasmissibile de iure ad ogni erede od altro individuo acquirente del podere – «eredità senza obbligo di sacrifici» era proverbio presso i Romani come presso di noi «rosa senza spine».
L'offerta della decima delle sostanze divenne così comune, che a Roma, col relativo prodotto, si tenevano un paio di volte al mese banchetti pubblici nel campo boario.
Col culto orientale della madre degli dei fu introdotto in Roma, fra altri sconci religiosi, anche l'uso delle collette del quattrino, che si praticavano annualmente in giorni fissi, andando alla cerca di porta in porta.
La classe inferiore dei sacerdoti e degli aùguri, finalmente, non faceva, com'era ben naturale, nulla per nulla; ed è senza dubbio cosa copiata dal vero, quando sulla scena comica dei Romani, nella conversazione tra marito e moglie, insieme al conto della cucina, a quello della levatrice ed a quello dei regali, noi troviamo anche quello delle opere pie:
«Pel prossimo giorno festivo, marito mio, devo avere anche qualche cosa per la strega, per l'indovina, per l'interprete dei sogni e per la levatrice. Se tu vedessi come questa mi guarda! È una vergogna se non mando qualche cosa. Anche alla sacrificatrice devo assolutamente fare un dono»[3].
I Romani di questo tempo non crearono già un dio d'oro come ne avevano creato uno d'argento; ma ciò nondimeno esso regnava tanto sulle più elevate quanto sulle infime sfere della vita religiosa.
L'antico orgoglio della religione nazionale latina, la equità delle moderate sue richieste erano spariti irrevocabilmente. Ma nello stesso tempo se n'era andata anche l'antica semplicità.