17. La catastrofe di Gracco.
Caio Gracco uscì dalla carica di tribuno del popolo il 10 dicembre 632 = 122; Opimio entrò il 1 gennaio 633 = 121. Il primo colpo fu diretto, come era giusto, contro la più utile e la più impopolare misura di Gracco: la riedificazione di Cartagine. Se fino allora le colonie oltremarine erano state avversate soltanto indirettamente colla più attraente colonizzazione italica, ora, avendo le iene africane, grufolando la terra, smossi i recenti termini cartaginesi, i sacerdoti romani dichiararono che un simile prodigio ammoniva seriamente che non si doveva ricostruire sul luogo maledetto.
Il Senato allora si trovò obbligato in coscienza a far proporre una legge che vietasse l'impianto della colonia giunonia. Gracco, il quale d'accordo con gli altri delegati per l'impianto di quella colonia stava appunto scegliendo i coloni, comparve il giorno della votazione in Campidoglio, ove era stata convocata la cittadinanza, per ottenere coi suoi aderenti che la legge fosse respinta.
Egli desiderava di evitare scene violente, per non offrire agli avversari il desiderato pretesto; ma non potè impedire che una gran parte dei suoi fidi, ricordando la catastrofe di Tiberio e ben conoscendo le intenzioni dell'aristocrazia, vi si trovasse armata, e, grande essendo l'irritazione delle due parti, era quasi impossibile che non si venisse alle mani.
Il console Lucio Opimio attendeva nell'atrio del tempio capitolino al consueto olocausto: uno dei suoi ministri, Quinto Antullio, tenendo in mano le sacre viscere, ordinò ai «malvagi cittadini» di sgombrare, e parve che volesse persino porre le mani su Caio Gracco. Fu allora che uno zelante partigiano di questi, tratta la spada, stese morto al suolo il temerario.
Ne nacque un terribile tumulto. Gracco tentò invano di far udire la sua voce al popolo e di allontanare da sè ogni responsabilità pel sagrilego misfatto; del resto egli non fece altro che somministrare al suoi avversari un formale capo d'accusa di più, interrompendo nel trambusto, senza avvedersene, un tribuno che parlava al popolo, ciò che era vietato sotto la più grave pena da uno statuto, ormai antiquato, dei tempi delle discordie civili.
Il console Lucio Opimio provvide perchè colle armi fosse soffocata quella sollevazione contro la costituzione repubblicana, poichè non altrimenti si convenne di qualificare gli avvenimenti di quel giorno. Egli stesso vegliò quella notte nel tempio di Castore sul foro; di buon mattino il Campidoglio si riempì di arceri cretesi, la curia ed il foro di partigiani del governo, dei senatori e della frazione dei cavalieri loro favorevole, che per ordine del console erano intervenuti armati e scortati ciascuno da due schiavi anch'essi armati.
Nessuno degli aristocratici fu assente, e armato di spada e di scudo v'intervenne persino il venerabile vecchio Quinto Metello, sebbene fosse favorevole alla riforma. Decimo Bruto, valoroso ufficiale, che nella guerra di Spagna aveva dato prove della sua valentìa, si pose alla testa della forza armata; il senato si raccolse nella curia. La bara col cadavere del ministro fu deposta dinanzi la curia; il senato quasi sorpreso, comparve in massa sulla porta per vedere il cadavere, indi si ritrasse per deliberare.
I capi del partito democratico, lasciato il Campidoglio, erano tornati alle loro case; Marco Flacco aveva passata la notte a predisporre un combattimento nelle vie, mentre Gracco pareva sdegnoso di pugnar contro il fato. Quando il mattino appresso si conobbero le disposizioni prese dagli avversari sul Campidoglio e sul foro, si recarono entrambi sull'Aventino, l'antica rocca dei popolani nelle contese tra patrizi e plebei.
Taciturno e inerme vi si recò Gracco. Flacco chiamò sotto le armi gli schiavi e si trincerò nel tempio di Diana, mandando nel tempo stesso il suo figlio minore, Quinto, al campo nemico, per venire possibilmente ad un accomodamento. Ritornò il legato colla risposta: che l'aristocrazia esigeva sommissione incondizionata; al tempo stesso fu portato a Gracco e a Flacco l'invito di comparire dinanzi al senato, per giustificarsi dell'ingiuria fatta alla maestà tribunizia.
Gracco, voleva ubbidire all'invito; ma Flacco lo impedì e, malaccorto, ripetè il tentativo, non meno assurdo che debole, di indurre simili avversari ad un componimento. Allorchè, invece dei due citati capipopolo, comparve ancora solo il giovane Quinto Flacco, il console considerò il loro rifiuto di presentarsi come il principio di una aperta ribellione contro il governo; mise in carcere il messaggero e ordinò che si muovesse all'assalto dell'Aventino facendo al tempo stesso gridare nelle pubbliche vie, che il governo darebbe a colui che gli recasse il capo di Gracco o quello di Flacco, tanto oro quanto pesava, e che assicurava piena amnistia a tutti coloro che abbandonassero l'Aventino, prima che cominciasse la lotta.
Le file dell'Aventino non tardarono a diradarsi; la valorosa nobiltà unita ai cretesi ed agli schiavi mosse all'assalto del monte, rimasto quasi senza difesa, e massacrò quanti vi si trovavano, circa 250, quasi tutta gente di bassa condizione.
Marco Flacco si appiattò col figlio maggiore in un nascondiglio, ove entrambi non tardarono ad essere scoperti e trucidati. Gracco, ritiratosi al principiare della zuffa nel tempio di Minerva, tentò di trafiggersi con la propria spada; ma l'amico suo, Publio Letorio, arrestandogli il braccio, lo scongiurò di serbarsi, se era possibile, per tempi migliori. Gracco acconsentì ad un tentativo di fuga sull'opposta riva del Tevere; ma discendendo dal monte cadde e si torse un piede. Per dargli tempo di fuggire, i suoi due compagni, Marco Pomponio alla porta Trigemina ai piedi dell'Aventino, e Publio Letorio sul ponte del Tevere, ove una volta Orazio Coclite solo, si dice, avesse trattenuto l'esercito etrusco, affrontarono i suoi persecutori e si lasciarono uccidere.
Così Gracco, accompagnato dal solo suo schiavo Euporo, raggiunse il sobborgo sulla sponda destra del Tevere. Qui nel sacro bosco della Furrina furono più tardi trovati i due cadaveri; pare che lo schiavo abbia dato la morte prima al padrone indi a sè stesso.
Le teste dei due capipopolo caduti furono, come era stato ordinato, recate al governo; al portatore del capo di Gracco, che fu Lucio Settimuleio, uomo ragguardevole, fu pagato il prezzo convenuto, e più ancora; gli assassini di Flacco, che erano gente di poco conto, furono mandati via a mani vuote.
I corpi degli uccisi furono gettati nel fiume; le case dei capi vennero abbandonate al saccheggio della folla. Contro i partigiani di Gracco incominciò il processo di guerra, nella forma più grandiosa; si disse che 3000 di essi fossero stati impiccati in carcere; tra questi anche il diciottenne Quinto Flacco, che non aveva preso parte alla lotta, e che fu generalmente compianto per la sua giovinezza e per la sua amabilità.
Sulla spianata ai piedi del Campidoglio furono demoliti tutti i sacri monumenti ivi innalzati alla Concordia, cominciando dall'ara consacrata da Camillo, quando erano state quietate le interne discordie, e colle sostanze dei rei d'alto tradimento, caduti nella zuffa, o condannati a morte, non escluse le doti delle mogli che vennero confiscate, fu per ordine del senato eretto dal console Lucio Opimio un nuovo sontuoso tempio della Concordia, con atrio relativo.
Tale era lo spirito dei tempi, distruggere i monumenti dell'antica Concordia e inaugurarne una nuova sulle salme dei tre vincitori di Zama, ingoiati dalla rivoluzione: Tiberio Gracco prima, indi Scipione Emiliano e finalmente il più giovane e il più formidabile di tutti, Caio Gracco.
Dei Gracchi fu ufficialmente bandita fin la memoria. Cornelia non potè nemmeno vestire la gramaglia per la morte dell'ultimo suo figliuolo, ma l'indomato amore che tanti avevano provato per i due nobili fratelli, soprattutto per Caio, mentre erano in vita, apparve in modo commovente anche dopo la loro morte nel culto quasi religioso che la moltitudine continuò a tributare alla loro memoria ed ai luoghi dove erano caduti, malgrado tutti i ripieghi della polizia.