33. Cesare e le province.
Gli ottimati schernivano il nuovo signore, il quale veniva ad ispezionare da se stesso, l'una dopo l'altra, le sue «tenute», e infatti la condizione di tutte le province esigeva tutta la serietà e tutta la saggezza di uno di quegli uomini rari, cui il nome di re va debitore se esso non serve ai popoli soltanto come luminoso esempio dell'umana insufficienza.
Spettava al tempo di risanare le riportate ferite; Cesare provvide che ciò avvenisse e che non ne fossero apportate delle nuove. L'amministrazione fu interamente cambiata; i proconsoli ed i proprietari sillani erano stati nella loro giurisdizione essenzialmente sovrani e non soggetti a nessun controllo; quelli di Cesare erano i servi, ben tenuti in freno, di un severo signore, il quale, per l'unità e la durata vitalizia del suo potere, si trovava verso i sudditi in una posizione più naturale e più tollerabile che non quei molti piccoli tiranni che si cambiavano ogni anno.
Le luogotenenze furono anche in seguito distribuite fra i due consoli e i sedici pretori che ogni anno uscivano di carica, ma poichè frattanto l'imperatore nominava direttamente otto di questi ultimi, e dipendeva assolutamente da lui la distribuzione delle province tra i concorrenti, così la carica veniva di fatto conferita dall'imperatore.
Anche la competenza dei luogotenenti era stata limitata. Rimase loro la direzione dell'amministrazione della giustizia ed il controllo amministrativo dei comuni, ma il loro comando fu paralizzato dal nuovo supremo comando in Roma, e dagli aiutanti del medesimo, posti a lato del luogotenente.
La leva fu probabilmente già allora demandata anche nelle province ai servi imperiali, cosicchè il luogotenente da allora in poi fu circondato da un personale ausiliario che dipendeva incondizionatamente dall'imperatore, sia per la legge della gerarchia militare, sia per quella, ancora più severa, della disciplina domestica.
Se fino allora il proconsole ed un suo questore poteva dirsi che fossero mandati, come un branco di banditi a riscuotere le contribuzioni, gli impiegati di Cesare erano mandati per proteggere il debole contro il forte; e al posto del controllo dei giudizi dei cavalieri e dei giudizi senatorî, sino allora in vigore, e che era peggiore di quello che sarebbe stato se non fosse esistito, fu messo un giusto ed inesorabile monarca a cui ne fu data la responsabilità.
La legge sulle estorsioni, le cui disposizioni erano già state aggravate da Cesare nel suo primo consolato, fu da lui stesso messa in pratica contro i comandanti supremi in carica con un'inflessibile severità, sorpassante persino la lettera della legge; e se gli impiegati delle contribuzioni osavano permettersi un atto arbitrario, lo espiavano verso il loro signore, come lo solevano scontare i servi e i liberti, secondo il crudele diritto spettante al capo di famiglia.
Le pubbliche imposte straordinarie furono ricondotte alla giusta misura ed all'effettivo bisogno; le ordinarie sensibilmente diminuite. All'energico ordinamento delle imposizioni si era già pensato prima d'allora; l'estensione delle esenzioni dalle imposte, la generale riduzione delle gravezze dirette, la limitazione del sistema delle decime in Africa ed in Sardegna, la completa soppressione dei mediatori nella riscossione delle imposte dirette, furono per i provinciali riforme provvidissime.
Non si può veramente provare che Cesare, ad esempio d'uno dei suoi più grandi predecessori democratici, Sertorio, abbia voluto liberare i sudditi dal peso dell'acquartieramento e costringere i soldati ad erigere, essi stessi, delle baracche stabili a guisa di città, ma almeno dopo che ebbe cambiato la parte di pretendente con quella di re, egli non era l'uomo da lasciare il suddito in balia del soldato; e quando gli eredi della sua politica costruirono simili campi di guerra creando da questi accampamenti nuove città, nelle quali la civiltà italica ebbe altrettanti focolari in mezzo alle barbare province confinanti, essi agirono secondo lo spirito di Cesare.
Molto più difficile che il reprimere gli abusi degli impiegati era il liberare i provinciali dall'oppressiva prepotenza dei capitalisti romani. Non si poteva completamente finirla con questi abusi senza ricorrere a mezzi che erano ancora più pericolosi del male; il governo poteva per il momento soltanto sopprimere i singoli abusi; così come, ad esempio, faceva Cesare vietando l'uso del titolo d'inviato dello stato a scopo d'usura, e d'impedire la violenza manifesta e l'usura evidente colla severa osservanza delle comuni leggi penali e delle leggi contro l'usura estendentisi anche alle province, e attendere, sotto una migliore amministrazione, una più radicale guarigione del male dal rifiorente benessere dei provinciali. Provvedimenti transitori per trarre alcune province dallo straordinario indebitamento erano stati presi più volte negli ultimi tempi.
Cesare stesso come luogotenente nella Spagna ulteriore, aveva assegnata ai creditori nel 694 = 60 due terzi delle entrate dei loro debitori, ad estinzione dei loro crediti. Similmente Lucio Lucullo, come luogotenente nell'Asia minore, aveva annullato senz'altro una parte degli interessi arretrati smisuratamente accresciuti, per l'altra parte aveva assegnato ai creditori il quarto delle rendite delle terre dei loro debitori ed una conveniente quota del profitto proveniente dagli affitti di casa o dal lavoro degli schiavi.
Non consta che Cesare dopo la guerra civile abbia ordinato simili liquidazioni di debiti nelle province; però, dopo quanto abbiamo osservato e dopo quanto avvenne per l'Italia, non si può dubitare che Cesare abbia pure lavorato a questo scopo, o per lo meno che le liquidazioni facessero parte del suo piano.
Se dunque l'imperatore, per quanto l'umana forza lo permettesse, salvò i provinciali dalle angherie degli impiegati e dei capitalisti di Roma, si poteva altresì con sicurezza attendere che il governo da lui rinvigorito scacciasse i popoli barbari di confine e distruggesse i pirati di terra e di mare, come il sole che sorge disperde la nebbia.
Per quanto dolorassero ancora le vecchie ferite, con Cesare apparve agl'infelici sudditi l'aurora di un tempo più sopportabile, ed egli fu, dopo molti secoli, l'apportatore di un governo intelligente ed umano e di una politica non basata sulla codardia, ma sulla forza. E questi sudditi, insieme coi migliori romani, ebbero ben ragione di piangere sulla salma del loro grande liberatore.