30. Ritiro e morte di Silla.
Questo Don Giovanni della politica era in ogni modo un uomo tutto d'un pezzo.
Tutta la sua vita prova che il suo carattere non si è mai mutato.
Silla si mantenne eguale in tutte le sue variatissime posizioni.
Lo stesso sentimento lo indusse dopo i brillanti successi ottenuti in Africa a far ritorno all'ozio della capitale, e, dopo aver esercitato un potere assoluto, a ritrovare, nella sua villa cumana, la tranquillità e la pace.
Non era affettazione quando diceva che per lui le pubbliche cariche erano un peso, che, appena gli fu permesso e potè farlo, scosse dalle sue spalle.
Nè dopo la sua abdicazione mutò affatto; senza rincrescimento e senza affettazione, contento di essersi ritirato dagli affari pubblici, egli era però sempre pronto ad occuparsene ogni qual volta se ne presentasse l'occasione.
Passava il suo tempo cacciando, pescando e scrivendo le sue memorie. Pregato dagli abitanti discordi tra loro, compose gli interni dissidi della vicina colonia di Pozzuoli colla stessa rapidità e sicurezza, con cui aveva già composto quelli della capitale.
L'ultimo suo lavoro durante la sua malattia fu la ricerca di mezzi per la ricostruzione del tempio capitolino, che non gli fu dato di vedere compiuta.
Poco più d'un anno dopo la sua abdicazione, nell'età di sessant'anni, vegeto e robusto di corpo e di mente, fu colpito dalla morte. Egli spirò dopo breve malattia in seguito ad uno sbocco di sangue (676-78)[15]; ancora due giorni prima del suo estremo momento stava scrivendo la sua biografia.
Nemmeno nella morte fu abbandonato dalla fortuna.
Egli non poteva desiderare di essere un'altra volta trascinato nel vortice funesto dei partiti e costretto a rimettersi alla testa degli antichi suoi guerrieri per combattere una nuova rivoluzione; e, atteso lo stato delle cose in Spagna ed in Italia all'epoca della sua morte, difficilmente avrebbe potuto sottrarsene se fosse vissuto più a lungo.
Appena si tenne discorso dei solenni funerali che gli si stavano preparando nella capitale, parecchi, che, lui vivo, non avrebbero ardito fiatare, si levarono altamente gridando per impedire gli ultimi onori che si volevano rendere al tiranno. Ma la memoria che di lui si serbava era ancora troppo fresca e troppo vivo il timore che s'aveva de' suoi antichi soldati; fu deciso di far trasportare la salma nella capitale e che colà si celebrassero le esequie.
In Italia non si videro mai funerali più magnifici. Ovunque passava il feretro regalmente adorno e preceduto dalle note sue insegne militari e dai fasci, gli abitanti e i vecchi suoi soldati si univano al funebre corteo; si sarebbe detto che tutto l'esercito volesse ancora una volta riunirsi intorno all'uomo che in vita l'aveva così spesso guidato alla vittoria, nè mai altro che alla vittoria.
Così giunse lo sterminato corteo funebre nella capitale, dove non funzionavano tribunali, non si trattavano affari, e dove duemila corone d'oro, ultimi doni onorari delle fedeli legioni, delle città e de' più intimi amici, attendevano l'arrivo della salma.
Silla aveva ordinato che, giusta il costume della famiglia dei Corneli, il suo corpo non fosse posto sul rogo; ma v'erano di quelli che meglio di lui si ricordavano di ciò ch'era avvenuto in passato e di quanto poteva avvenire e il cadavere di quell'uomo, che aveva turbato le ceneri di Mario nel silenzio della tomba, fu dato alle fiamme per ordine del senato.
Accompagnato da tutti i magistrati e dall'intiero senato, e da una schiera di fanciulli di famiglie nobili in uniforme da cavaliere, il convoglio giunse sul foro, e su quella piazza che ricordava i suoi fasti e sulla quale quasi risonavano ancora le temute sue parole, fu pronunciata la sua orazione funebre, indi la bara fu portata dai senatori al campo di Marte, ove s'innalzava il rogo.
Mentre questo divampava, i cavalieri e i soldati eseguirono i giuochi funebri; le ceneri del reggente furono poscia depositate nel campo di Marte accanto alle tombe degli antichi re, e le matrone romane vestirono il lutto per un anno intero.