3 La più antica influenza ellenica.
Se povere sono le sorgenti, a cui possiamo attingere notizie della più antica coltura indigena e dell'arte del Lazio, non è meraviglia se sappiamo ancor meno dei primi incitamenti, che i Romani ricevettero dagli stranieri alla coltura delle belle arti. In un certo senso si può annoverare tra questi eccitamenti la conoscenza delle lingue straniere e particolarmente della lingua greca, la quale, è ben naturale, non era nota al popolo latino, come ce ne fa prova la disposizione relativa al modo di interpretare gli oracoli sibillini, ma non doveva però essere affatto ignota tra i commercianti; e lo stesso può dirsi della conoscenza del leggere e dello scrivere, la quale è strettamente congiunta colla conoscenza del greco. Ma la coltura dei popoli antichi non si fondava già sulla notizia di lingue straniere, o di elementari pratiche tecniche; e per la civiltà latina, più che tali comunicazioni, importavano gli elementi delle concezioni poetiche, che essi avevano già in tempi anteriori ricevuti dagli Elleni. Poichè a questo riguardo nè i Fenici, nè gli Etruschi, nè gli Elleni esercitarono alcuna influenza sugli Italici; e presso di essi non si incontra il menomo indizio d'imitazione che ci faccia pensare a Cartagine o a Cere; e ben può dirsi che le forme della coltura fenicia non meno che dell'etrusca sono da porre fra le sterili e inette a feconda propagazione[6]. Ma non mancò la proficua influenza greca. La lira greca dalle sette corde, detta lecorde (fides da σϕίδη budello, anche barbitus βάρβιτος) non è indigena del Lazio come il flauto, e vi fu sempre considerata come istrumento straniero; ma quanto presto vi sia stata introdotta lo prova in parte la barbara sineddoche del nome greco, in parte la sua introduzione nel rituale[7]. La rispettosa accoglienza fatta alle statue greche colle loro rappresentazioni mitologiche, che erano fondate sul mondo poetico degli Elleni, prova che già fin da que' tempi erano note ai Latini le leggende e le tradizioni greche; e anche le antiche storpiature barbariche dei Latini, che mutarono il Ciclope in Cocles, Laomedonte in Alumentus, Persefone in Proserpina, Bellerofonte in Melerpanta, Ganimede in Catamitus, Neilos in Melus, Semele in Stimula, ci persuadono che questi racconti furono uditi per la prima volta e ripetuti dai Latini in tempi antichissimi. Finalmente la principale festa romana della città (ludi maximi romani) non può non aver avuto, se non la sua origine, almeno il suo ultimo ordinamento, dall'influenza greca. Questa festa era istituita in segno di grazie straordinarie, di solito dietro il voto fatto da un generale prima della battaglia, e solennemente al ritorno della milizia cittadina in autunno, ed era destinata a Giove capitolino ed agli dei conviventi con esso. Si andava in processione solenne sull'arena situata tra il Palatino e l'Aventino, ove era tracciato l'arengo con tutto intorno i posti per gli spettatori: precedevano i giovani di Roma ordinati secondo le divisioni della milizia cittadina a cavallo e a piedi; venivano poi i lottatori e i gruppi dei danzatori già descritti, ognuno colla propria musica; indi i servi degli dei coi loro incensieri e gli altri sacri arredi; finalmente le barelle colle statue degli dei. Lo spettacolo era una immagine della guerra come la si faceva negli antichi tempi e quindi il combattimento sui carri, a cavallo e a piedi. I primi a cimentarsi erano i carri da battaglia, ognuno dei quali, al modo omerico, portava un auriga ed un giostratore essediario, quindi gli stessi giostratori balzati giù dai carri; poi i cavalieri, ognuno de' quali, seguendo la maniera romana di combattere, entrava nella lizza a cavallo e con un altro cavallo condotto a mano (desultor): finalmente i giostratori a piedi, affatto nudi meno una cintura alle anche, che si misuravano nella corsa, nella lotta e nel pugilato. In ogni specie di combattimento non si veniva alle prese che una sola volta e sempre tra due campioni. Il vincitore era premiato con una corona, e in qual conto si tenesse quel semplice ramo lo prova la legge che permetteva di porlo sulla bara del vincitore dopo la sua morte. La festa durava un sol giorno: è però verosimile che le lotte lasciassero ancora tempo pel vero carnevale, in cui i gruppi dei danzatori avranno spiegato la loro abilità e particolarmente le loro buffonerie, ed avranno avuto luogo altri spettacoli, come ad esempio, giuochi ginnastici della cavalleria de' giovani[8]. In questa solennità avevano una parte anche le onoranze concesse per la vera guerra: il valoroso campione esponeva in questo giorno le armature degli avversari uccisi e riceveva dal comune, con gli encomi, la corona civica. La festa della città di Roma era tale, che essa secondo tutte le apparenze ha servito d'esempio anche per tutte le altre feste pubbliche di Roma. La festa della vittoria, la «danza», era una solenne processione del tutto eguale alla festa urbana, e alla quale andavano uniti spesse volte eguali divertimenti popolari; nei pubblici funerali vi erano d'ordinario dei danzatori, e quando si voleva uno sfarzo maggiore, vi si davano delle corse, di cui il pubblico banditore dava notizia ai cittadini nell'invitarli alla funebre solennità. Ma questa festa urbana, così strettamente conforme ai costumi e agli usi di Roma, assomiglia in tutte le parti essenziali alle feste popolari elleniche: e così prima di tutto è comune alle une e all'altra il pensiero fondamentale dell'unione d'una festa religiosa e di una gara di esercizi e simulacri bellici; poi è uguale la scelta dei vari esercizi, i quali sono quelli stessi che, giusta la testimonianza di Pindaro, si celebravano nelle feste olimpiche, e che consistevano nella corsa, nella lotta, nel pugilato, nella gara dei carri, nel lanciare aste e pietre; eguali le disposizioni pel premio del vincitore, che tanto in Roma, quanto nelle feste nazionali della Grecia consisteva in una corona, e che nell'un paese come nell'altro non era data all'auriga, sibbene al proprietario dei cavalli; si riscontra finalmente nella festa universale del popolo anche l'uso di solennizzare le azioni e le ricompense patriottiche. Questa concordanza non può essere accidentale, ma, o deve essere un resto dell'antichissima comunanza preistorica dei due popoli, o l'effetto di antiche relazioni internazionali; e la verosimiglianza ci fa pendere per quest'ultima ipotesi.
La festa urbana, come noi la conosciamo, non è già una delle più vetuste instituzioni di Roma, poichè la piazza delle corse appartiene già al novero di quelle del meno antico tempo dei re e nel modo come allora avvenne la riforma sotto l'influenza greca così nella festa della città possono essere state sostituite le corse greche a qualche antico divertimento – forse all'altalena, antichissimo divertimento in Italia, rimasto lungamente in uso nella festa del monte Albano. E a dir vero, nell'Ellade v'è indizio e prova che i carri si siano veramente usati in guerra; nel Lazio no. Di più vi è perfino una testimonianza positiva, che i Romani hanno tolto le corse dei cavalli e dei carri dai Turi, quantunque un'altra indicazione li voglia derivare dall'Etruria. Pare dopo tutto ciò, che i Romani, oltre gl'insegnamenti nella musica e nella poesia, abbiano attinto dagli Elleni anche il fecondo pensiero della gara ginnastica.