6. Prodromi di rivolta.
Gli italici con Marco Druso avevano perduto l'ultima speranza di ottenere pacificamente la cittadinanza romana.
Ciò che questo uomo conservatore ed energico, nelle più favorevoli circostanze non aveva potuto ottenere dal proprio partito, non si poteva conseguire certamente senza violenza.
Gli Italici non avevano quindi altra scelta, che, o sopportare pazientemente il gioco, o rinnovare un'altra volta, e possibilmente tutti insieme, il tentativo, trentacinque anni prima soffocato sul nascere colla distruzione di Fregelle, sia di distruggere Roma colle armi e porsi in sua vece, sia di strapparle almeno con la forza la concessione dell'eguaglianza dei diritti.
Quest'ultimo tentativo era senza dubbio quello della disperazione; così come stavano le cose, la sollevazione dei singoli comuni urbani contro il governo romano doveva sembrare un partito molto più disperato che la sollevazione delle colonie americane contro il governo britannico; secondo ogni apparenza il governo romano poteva con qualche previdenza e con un po' d'energia preparare a questa seconda sollevazione la sorte che era toccata alla prima.
Ma lo starsene inoperosi a lasciar venire gli eventi, si poteva forse dire partito meno disperato? Se si poneva mente al modo con cui i romani, non provocati, erano usi di tiranneggiare in Italia, che cosa potevano gli Italici attendersi ora che in tutte le città italiche gli uomini più ragguardevoli si erano messi – il che per le conseguenze vale lo stesso – d'accordo con Druso, accordo decisamente ostile al partito vittorioso e che facilmente si poteva qualificare alto tradimento?
A quanti avevano partecipato a questa legge[4] segreta e anche a quelli che potevano essere sospetti di appartenervi, non rimaneva altra scelta che quella di incominciare la guerra, o di piegare il collo sotto la scure del carnefice.
Oltre a questo v'erano ancora, nel presente momento, ragioni sufficienti di sperar bene per una sollevazione generale di tutta Italia.
Noi non sapremmo assicurare sino a che punto i Romani avessero ottenuto lo scioglimento delle più ragguardevoli federazioni italiche; non è però inverosimile che i Marsi, i Peligni, e fors'anche i Sanniti ed i Lucani si trovassero ancora uniti nelle loro antiche federazioni comunali, benchè divenute politicamente nulle e ridotte in parte ad una semplice comunanza di feste e di sacrifici.
L'incipiente insurrezione trovava tuttavia incremento in queste riunioni; ma chi poteva garentire che perciò appunto i Romani non si affrettassero a sciogliere anche queste? La lega segreta, alla cui testa si doveva trovare Druso, aveva con lui perduto il suo capo effettivo o sperato, ma essa esisteva tuttavia e assicurava all'organizzazione politica dell'insurrezione un valido sostegno, mentre all'organizzazione militare ogni città federale provvedeva con armi proprie e con sperimentati combattenti.
D'altra parte a Roma a nulla s'era seriamente provveduto. Si sapeva che per l'Italia si faceva sentire qualche sordo ed inquietante brontolio e che i comuni federati tenevano tra di loro una rilevante corrispondenza; ma invece di chiamar subito sotto le armi i cittadini, il collegio dei governanti si accontentò di invitare i magistrati a sorvegliare il paese ed a spedire delatori sui luoghi per meglio accertarsi dello stato delle cose.
La capitale era talmente priva di mezzi di difesa, che un risoluto ufficiale marsico, Quinto Pompedio Silone, uno degli amici più fidi di Druso, avrebbe ideato, come si diceva, d'introdursi di soppiatto alla testa di uomini fidati con spade nascoste sotto il manto e d'impadronirsene con un colpo di mano.
Si preparava dunque un'insurrezione, si erano conchiusi dei trattati, si proseguivano nel silenzio e con attività gli armamenti, quando essa per caso, come suole avvenire, scoppiò prima del tempo stabilito dai capi.