12. L'uccisione di Gracco.
Sembra ch'egli avesse pronte altre leggi popolari, sulla riduzione del tempo di servizio, sull'estensione del diritto di provocazione, sulla soppressione del privilegio dei senatori di funzionare esclusivamente come giurati civili e persino sull'ammissione dei federati italici alla cittadinanza romana; non sapremo dire sino dove si estendessero i suoi disegni, certo è che Gracco vedeva la sua salvezza solo nella carica che lo proteggeva e di cui chiedeva ai cittadini la proroga per un anno ancora, e che per ottenere questo prolungamento illegale metteva innanzi ulteriori riforme.
Se prima gli era bastato l'animo di cimentarsi per la salute della repubblica, ora si vedeva costretto di mettere a cimento la repubblica per salvare sè stesso. I collegi elettorali furono convocati per procedere alla elezione dei tribuni pel venturo anno e le prime divisioni diedero i loro voti a Gracco; ma la parte avversaria ottenne col suo voto, se non altro, che l'adunanza fosse sciolta, senza aver concluso nulla, e la decisione fosse rimandata al giorno appresso. Gracco mise in opera per l'indomani ogni mezzo lecito ed illecito, si mostrò al popolo in gramaglia e gli raccomandò il suo figliuoletto; se l'elezione veniva turbata da altro veto egli aveva provveduto a che il partito aristocratico fosse cacciato colla forza dalla piazza dell'adunanza dinanzi al tempio capitolino.
Venne il secondo giorno dell'elezione, i voti si rinnovarono come il giorno innanzi e si rinnovò anche il veto; la sollevazione non si fece attendere. I cittadini si dispersero; l'adunanza generale fu sciolta di fatto, il tempio capitolino fu chiuso; si raccontava in città ora che Tiberio aveva dimesso tutti i tribuni, ora ch'egli era deciso di mantenersi in carica anche se non fosse rieletto. Il senato si era raccolto nel tempio della Fede in vicinanza del tempio di Giove capitolino; in quella seduta parlarono i più irritati avversari di Gracco. Avendo Tiberio portata la mano alla fronte per significare alla tumultuante moltitudine che il suo capo correva pericolo, si disse ch'esso eccitasse il popolo ad ornarlo del diadema reale, e il console Scevola fu invitato a fare immediatamente mettere a morte il reo d'alto tradimento; e quando quest'uomo di principî moderati e non avverso alla riforma respinse con sdegno la dissennata e barbara richiesta, il console Publio Scipione Nasica, uomo duro, guidato dalle passioni, fece appello a coloro che dividevano le sue opinioni perchè si armassero alla meglio e lo seguissero.
Pochissimi campagnoli erano venuti in città per le elezioni; la turba cittadina si sciolse impaurita quando vide accorrere infuriati i nobili armati di piedi di seggiole e di randelli; Gracco seguìto da pochi tentò di mettersi in salvo. Ma nella fuga stramazzò sul pendio del Campidoglio e fu ucciso con un colpo di randello vibratogli sulla tempia da uno di quei furibondi davanti alle statue dei sette re, presso il tempio della Fede; si disputarono poscia l'onore di averlo ucciso Publio Satureio e Lucio Rufo; con esso furono immolati altri trecento, nessuno con ferite di ferro.
Discesa la notte i corpi furono gettati nel Tevere. Invano Caio Gracco chiese che gli fosse concesso il cadavere di suo fratello per dargli sepoltura.
In Roma non si era ancora veduto un giorno simile a questo. La più che secolare contesa dei partiti durante la prima crisi sociale della città non ebbe a registrare un eccidio simile a quello col quale si iniziò la seconda. La parte migliore dell'aristocrazia stessa ne dovette inorridire; ma non si poteva più indietreggiare. Non v'era altra scelta: o abbandonare alla vendetta della moltitudine un gran numero dei più fidati partigiani, o assumere intera la responsabilità del delitto; si prese l'ultimo partito. Si sostenne ufficialmente che Gracco aspirasse alla corona e si volle accrescere fede a questo nuovo misfatto con quello antichissimo di Ahala; fu persino nominata una commissione speciale per rintracciare i complici di Gracco lasciando al presidente Publio Popilio la cura che, per mezzo di condanne capitali contro molti plebei, si desse una certa impronta di legalità al delitto commesso contro Gracco (622 = 132).
Nasica, contro cui specialmente la moltitudine fremeva avida di vendetta e ch'ebbe almeno il coraggio di confessare e difendere francamente dinanzi al popolo la sua azione, fu con onorevoli pretesti inviato in Asia e subito dopo, mentre era assente (624 = 130), investito della carica di supremo pontefice.
Anche il partito moderato non si staccò dai suoi colleghi. Caio Lelio prese parte alle inchieste contro i partigiani di Gracco; Publio Scevola, il quale aveva tentato d'impedire l'assassinio del tribuno, lo difese poscia in senato; quando Scipione Emiliano al suo ritorno dalla Spagna (622 = 132) fu invitato a dichiarare pubblicamente se approvasse o no l'uccisione di suo cognato, rispose, per lo meno ambiguamente, che a ragione si era ucciso se aspirava alla corona reale.