5. Ritiro di Pompeo.
Pompeo aveva tutte le ragioni per essere contento dell'andamento delle cose. La via al trono doveva ormai passare necessariamente attraverso la guerra civile; e poterla incominciare con buona ragione egli lo doveva all'incorreggibile stravaganza di Catone.
Dopo l'illegale condanna dei seguaci di Catilina, dopo le inaudite violenze contro il tribuno del popolo Metello, Pompeo la poteva iniziare al tempo stesso come propugnatore dei due palladi della libertà repubblicana di Roma, cioè del diritto d'appello e dell'inviolabilità del tribunato del popolo contro l'aristocrazia, e come protettore del partito dell'ordine contro la banda catilinaria.
Sembrava quasi impossibile che Pompeo non dovesse farlo e si riducesse per la seconda volta nella difficile situazione in cui l'aveva posto il licenziamento del suo esercito nel 684 = 70, e dalla quale lo aveva liberato solo la legge gabinia. Ma per quanto gli fosse facile ornare la sua fronte della benda reale, per quanto l'animo suo lo desiderasse ardentemente, quando si trattò di stendervi la mano gliene mancò ancora il coraggio.
Quest'uomo, mediocre in tutto, meno che nelle sue pretese, si sarebbe messo volentieri al disopra della legge, purchè lo avesse potuto fare senza uscire dal terreno legale. Già le sue situazioni in Asia lo avevano fatto supporre. Volendo egli avrebbe potuto entrare facilmente nel porto di Brindisi col suo esercito e con la sua flotta nel gennaio del 692 = 62 e qui ricevere Nepote.
L'essersi egli fermato in Asia tutto l'inverno del 691-2 = 63-2 ebbe per immediata e triste conseguenza, che l'aristocrazia, la quale naturalmente accelerava con tutte le sue forze la campagna contro Catilina, la fece finita con le bande di questo e mancò perciò il conveniente pretesto per tenere sotto le armi in Italia le legioni asiatiche.
Per un uomo come Pompeo, che, in mancanza della fede in sè stesso e nella sua stella, nella sua vita pubblica si attaccava ansiosamente al diritto formale e per il quale il pretesto valeva quasi lo stesso della ragione, questa circostanza fu di grave peso. Egli poteva ben pensare che, anche licenziando l'esercito, non lo scioglieva del tutto, e che in caso di bisogno era sicuro di raccoglierne uno pronto alla lotta prima di qualunque altro capopartito; che la democrazia si teneva sommessa al suo cenno e che col ricalcitrante senato si poteva farla finita anche senza soldati, e fare altre simili riflessioni, nelle quali era appunto tanta verità da sembrare plausibili a colui che voleva ingannare sè stesso.
Fu ancora il carattere speciale di Pompeo che diede il tracollo. Egli apparteneva a quella classe d'uomini, che sono capaci di commettere un delitto, ma non un atto d'insubordinazione; egli era tanto nel bene quanto nel male assolutamente un vero soldato. Gli individui di qualche importanza considerano la legge come una necessità morale, gli uomini comuni come un'abituale regola tradizionale; appunto perciò la disciplina militare, in cui più che altro la legge ordinariamente si presenta come un'abitudine, vincola ogni animo non intieramente risoluto con una specie di magico legame.
Si è spesso osservato che il soldato, anche quando ha preso la decisione di negare obbedienza al suo superiore, se questa obbedienza viene richiesta, ritorna involontariamente alla disciplina. Fu questo sentimento che fece vacillare e trattenne Lafayette e Dumouriez all'ultimo momento prima di commettere il tradimento, ed a questo sentimento soggiacque anche Pompeo.
Nell'autunno del 692 = 62 Pompeo s'imbarcò per l'Italia. Mentre nella capitale tutti si preparavano a ricevere il nuovo monarca, venne la notizia che, appena arrivato a Brindisi, Pompeo aveva sciolto le sue legioni e che era partito con poco seguito alla volta di Roma.
Se si può considerare una fortuna quella di guadagnare una corona senza fatica, la fortuna non ha mai fatto tanto per un mortale quanto fece per Pompeo; ma gli dei prodigano invano i loro favori ai pusillanimi.