34. Principî dello stato elleno-italico.
Ma questa repressione degli esistenti abusi non era la cosa principale nella riforma provinciale di Cesare. Secondo le idee degli aristocratici, le cariche nella repubblica romana non erano state altro, se non, come spesso vengono chiamate, possessioni del popolo romano, e come tali erano state utilizzate e sfruttate.
Ora questo era finito. Le province, come tali, dovevano a poco a poco scomparire per preparare una nuova e più vasta patria alla ringiovanita nazione elleno-romana, di cui nessun singolo distretto esisteva soltanto per il volere di un altro, ma tutti esistevano per uno e uno per tutti.
La nuova esistenza del ringiovanito paese, la vita popolare più fresca, più libera, più grandiosa, doveva vincere da sola i dolori e i danni della nazione, per i quali nella vecchia Italia non v'era più rimedio. Com'è noto questi pensieri non erano nuovi. L'emigrazione dall'Italia nelle province, diventata permanente da secoli, aveva da molto tempo, sebbene ad insaputa degli stessi emigranti, preparata una simile estensione dell'Italia.
In modo conforme Caio Gracco, il creatore della monarchia democratica romana, il motore delle conquiste transalpine, il fondatore delle colonie di Cartagine e di Narbona, aveva tratto gli italici oltre i confini d'Italia; venne poi il secondo uomo di stato di genio, sorto dalla democrazia romana, Quinto Sertorio, che cominciò ad iniziare i barbari occidentali nella civiltà latina, facendo adottare alla nobile gioventù spagnola i costumi romani, incitandola a parlare latino e ad istruirsi nella superiore coltura italica nell'istituto da lui fondato in Osca.
All'inizio del governo di Cesare una grande massa della popolazione italica, mancante certo in gran parte di stabilità, come di concentrazione, era già sparsa in tutte le province ed in tutti gli stati vassalli. Per tacere delle città formalmente italiche sorte nella Spagna e nella Gallia meridionale, noi ricorderemo soltanto le numerose truppe cittadine che Sertorio e Pompeo levarono in Spagna, Cesare nella Gallia, Giuba nella Numidia, il partito della costituzione in Africa, in Macedonia, in Grecia, nell'Asia minore ed in Creta; ricorderemo la lira latina, sebbene scordata, sulla quale i poeti di Cordova, già nella guerra sertoriana, cantavano le lodi dei sertoriani romani, le versioni delle poesie greche pregiate appunto per la loro eleganza linguistica, pubblicate subito dopo la morte di Cesare dal più antico poeta celebre fuoritalico, dal transalpino Publio Terenzio Varrone.
L'assimilazione dell'elemento latino e di quello ellenico si poteva dire d'altra parte vecchia quanto Roma. Già dall'unione d'Italia, la vittoriosa nazione latina si era assimilata tutte le altre nazionalità soggiogate; unica, la greca le si innestò così com'era, senza mescolarsi.
Dovunque andasse il legionario romano, ve lo seguiva il maestro di scuola greco, alla sua maniera non meno conquistatore di lui; già di buon'ora noi troviamo maestri di lingua greca sulle sponde del Guadalquivir, e nell'istituto di Osca si insegnava tanto il greco che il latino.
Tutta la coltura superiore romana altro non era che l'annunciazione del grande vangelo dei costumi e dell'arte ellenica nell'idioma italico; il greco non poteva protestare, per lo meno ad alta voce, contro la modesta arroganza dei civilizzanti conquistatori di annunziarlo nella loro lingua ai barbari d'occidente.
Già da lungo tempo i greci scorgevano dappertutto, e più decisamente appunto là dove il sentimento nazionale era più puro e più forte, sui confini minacciati da barbara denazionalizzazione, come, ad esempio, in Massalia, sulle spiagge nordiche del Mar Nero e su quelle dell'Eufrate e del Tigri, lo scudo e la spada dell'Ellenismo in Roma; ed infatti le città fondate da Pompeo nel lontano oriente riassunsero, dopo una interruzione di parecchi secoli, l'opera benefica di Alessandro.
Il pensiero di uno stato elleno-italico, con due lingue ed una sola nazionalità, non era nuovo; *del resto non sarebbe stato che un errore;*[28] ma se esso da progetti vacillanti si è sviluppato prendendo stabile forma, questa è l'opera del terzo e più grande degli uomini di stato democratici di Roma.