5. Gli uomini della restaurazione.
Nè poteva accadere diversamente: la nazione intera era in decadenza intellettuale e morale, e soprattutto le classi più elevate.
L'aristocrazia, prima del tempo dei Gracchi, veramente non aveva abbondanza d'ingegni e i banchi del senato erano occupati da una spregevole e vile turba patrizia; ma vi sedevano pure Scipione Emiliano, Caio Lelio, Quinto Metello, Publio Crasso, Publio Scevola, e parecchi altri uomini distinti e capaci, e ognuno, a cui non facesse velo la passione, poteva giudicare che il senato, nella sua sragionevolezza, manteneva una certa misura e un certo decoro.
Questa aristocrazia era caduta, poi risorta e infine pesò sopra di essa la maledizione della restaurazione. Se l'aristocrazia aveva prima governato a suo senno, e da più di un secolo senza una seria opposizione, l'avvenuta crisi, come un lampo nell'oscurità della notte, le aveva mostrato la voragine che stava spalancata ai suoi piedi.
Quale meraviglia quindi se d'ora in avanti il governo dell'antico partito patrizio si segnalasse col rancore e, là dove poteva, col terrore? se i reggenti, strettamente uniti in partito si mostrassero ancora più aspri e più violenti contro i governati? se ora la politica dinastica, appunto come nei più difficili tempi del patriziato, si andasse di nuovo estendendo, e per non parlare di cognati e di altri ne siano prova i quattro figli e (probabilmente) i due nipoti di Quinto Metello, i quali, uomini da nulla e in parte screditati per la loro dabbenaggine, pervennero entro quindici anni (631-645 = 123-109) al consolato, e tutti, meno uno, ottennero gli onori del trionfo? Se, quanto più violento e più crudele uno di loro si fosse mostrato contro il partito avversario, tanto maggiormente era da essi festeggiato, e se al vero aristocratico era perdonata ogni malvagità, ogni impudenza? Se solo la mancanza di un diritto delle genti distinguesse nella loro guerra i governanti e i governati da due parti belligeranti?
Era purtroppo evidente che se l'antica aristocrazia percuoteva il popolo colle verghe, quella della restaurazione lo fustigava cogli «scorpioni». Essa ritornò; ma non più prudente, fatta migliore.
Giammai sino ad ora l'aristocrazia romana aveva così completamente difettato di capacità politiche e militari come in questa epoca di restaurazione fra la rivoluzione di Gracco e quella di Cinna.
A questo proposito va segnalato il corifeo del partito senatoriale di questo tempo, Marco Emilio Scauro.
Figlio di nobilissimi, ma poveri parenti, obbligato quindi a mettere a profitto i suoi non comuni talenti, egli fu eletto console (639 = 115) e censore (645 = 109) e fu per molti anni presidente del senato e l'oracolo politico degli aristocratici; egli eternò il suo nome non solo come oratore e scrittore, ma anche come promotore di parecchie grandiose opere pubbliche eseguite in questo secolo.
Ma se si esaminano le cose più da vicino, come duce, i suoi fasti tanto celebrati si riducono a pochi trionfi di nessun conto ottenuti nei villaggi delle Alpi, e come uomo politico, le poche vittorie da lui riportate sullo spirito rivoluzionario di questo tempo colle leggi sulla votazione e contro il lusso, valgono presso a poco come i suoi trionfi; il suo vero talento consisteva nell'essere facilmente accessibile e corruttibile, come qualunque altro onesto senatore; ma per una certa scaltrezza, si avvedeva del momento in cui la cosa volgeva al serio, e colla nobile e maestosa sua presenza dinanzi al pubblico sapeva mascherarsi da Fabrizio.
Quanto a milizia si trovavano veramente alcune onorevoli eccezioni di valenti ufficiali tra l'alta aristocrazia; ma generalmente i nobili, mettendosi alla testa degli eserciti, si affrettavano a scorrere i manuali di guerra greci e gli annali romani, per apprendere quanto occorreva per tenere un discorso militare, e, appena entrati in campagna, nel miglior caso cedevano il comando effettivo a un ufficiale di umili natali e di provata modestia. Infatti, se un paio di secoli addietro il senato rendeva immagine di un'assemblea di re, questi loro successori non rappresentavano male la parte di principi. Ma pari alla inettitudine di questi nobili della restaurazione era la loro abiezione politica e morale.
Se le condizioni religiose, sulle quali ritorneremo, non offrissero un quadro fedele della dissolutezza di questo tempo, e non si ravvisasse pure nella storia estera di questo tempo la grande malvagità dei nobili romani, essi sarebbero caratterizzati abbastanza dagli orrendi delitti che l'un dopo l'altro si commettevano nelle più elevate sfere romane.