24. Scipione in Africa.
Nel senato romano nessuno ormai dubitava che la guerra mossa da Cartagine a Roma fosse finita, e che allora dovesse cominciare la guerra di Roma contro Cartagine; ma, per quanto apparisse inevitabile la spedizione africana, pure a nessuno bastava l'animo di ordinarla.
Occorreva, prima di tutto, un capitano capace e benvoluto, e non se n'aveva alcuno. I migliori erano morti sul campo di battaglia, o erano, come Quinto Fabio e Quinto Fulvio troppo vecchi per una simile guerra, del tutto nuova e verosimilmente di lunga durata.
I vincitori di Sena Gallica, Gaio Nerone e Marco Livio avrebbero avuto bensì la capacità di coprire questa carica, ma entrambi erano aristocratici e impopolari in sommo grado; era dubbio se si riuscirebbe a far loro conseguire il comando, poichè si era pervenuti al punto che il talento prevaleva nella elezione solo nei tempi difficilissimi, ed era inoltre più che dubbio, se essi fossero gli uomini capaci di indurre il popolo già esausto, a nuovi sagrifizi.
Ritornava in quel punto dalla Spagna Publio Scipione; e il prediletto della moltitudine, il quale aveva così brillantemente adempiuto, o almeno sembrava avesse adempiuto, il compito da essa affidatogli, fu tosto eletto console pel prossimo anno.
Egli entrò in carica (549=205) colla ferma risoluzione di effettuare la spedizione d'Africa che aveva concepita sin dal tempo in cui si trovava in Spagna. Ma in senato il partito della guerra metodica non solo non voleva udir parlare d'una simile spedizione finchè Annibale si trovasse ancora in Italia, ma nemmeno la maggioranza si mostrava favorevole al giovane generale.
La sua eleganza greca, la sua coltura ed i suoi sentimenti non garbavano affatto agli austeri e, se si vuole, alquanto rustici padri della città; e rispetto al suo modo di guerreggiare in Spagna, ed alla sua disciplina militare, v'era di che dire.
Quanto giusta e meritata fosse l'accusa che gli si moveva di soverchia indulgenza verso i suoi comandanti di corpo, lo dimostrarono ben presto le turpitudini, che Gaio Pleminio[2] commise in Locri, e delle quali Scipione stesso, per la trascurata sua sorveglianza, si rese indirettamente complice nel modo più scandaloso.
In occasione delle discussioni avvenute in senato circa il decreto della spedizione africana e la nomina del comandante supremo, il nuovo console fece chiaramente conoscere i suoi sentimenti, di non curare cioè le difficoltà che potessero sorgere qualora gli usi e la costituzione si opponessero alle sue mire personali, e come, spinto all'estremo e trovandosi a conflitto coll'autorità governativa, pensasse di appoggiarsi alla sua gloria ed alla popolarità di cui godeva presso la moltitudine; sentimento questo che doveva non solo offendere il senato, ma destarvi altresì il serio timore se un simile generale fosse l'uomo da uniformarsi, nella imminente guerra decisiva e nelle eventuali trattative di pace con Cartagine, alle istruzioni che gli verrebbero comunicate; timore giustificato dal modo arbitrario con cui Scipione aveva già diretta la spedizione in Spagna.
Ma da ambo le parti si procedette con abbastanza avvedutezza senza spingere le cose agli estremi. Anche il senato dovette finalmente riconoscere la necessità di questa spedizione africana e che non era prudente protrarla indefinitamente, e dovette convenire che Scipione era un abilissimo generale, e sotto questo aspetto adattissimo a condurre una tal guerra, e inoltre ch'esso era il solo cui il popolo avrebbe accordata la proroga del supremo comando finchè le circostanze l'avessero richiesto, e fatto il sagrifizio delle ultime forze.
La maggioranza si decise finalmente a non rifiutare a Scipione il desiderato incarico dopo che il medesimo ebbe usati, almeno nella forma, i riguardi dovuti alla suprema magistratura e si fu sottomesso anticipatamente alla decisione del senato.
Scipione doveva quell'anno recarsi in Sicilia a sollecitare l'allestimento della flotta, il restauro del materiale d'assedio, e a spingere l'organizzazione dell'esercito di spedizione per approdare poi nell'anno seguente sulle coste dell'Africa.
A questo scopo gli fu assegnato l'esercito siciliano – quelle due legioni composte dalle reliquie dell'esercito di Canne – bastando per la difesa dell'isola una scarsa guarnigione ed il naviglio, e gli fu data inoltre l'autorizzazione di assoldare volontari in Italia.
Era evidente che il senato non ordinava la spedizione, ma solo lasciava che si facesse; Scipione non ricevette la metà dei mezzi che già erano stati messi a disposizione di Regolo, e per soprappiù gli si dava appunto quel corpo che, con calcolata indifferenza, per molti anni era stato trascurato dal senato.
L'esercito africano era considerato dalla maggioranza del senato come un corpo perduto, composto di compagnie correzionali e di volontarii, di modo che la sua perdita non sarebbe poi stata dolorosa per lo stato.
Altri, al posto di Scipione, avrebbe forse dichiarato che la spedizione d'Africa si facesse con altri mezzi, o non la si facesse; ma Scipione accettò le condizioni che gli venivano imposte pur di ottenere quel comando così ardentemente desiderato.
Egli evitava con ogni studio di aggravare direttamente il popolo per non recar danno alla popolarità della spedizione. Le relative spese, e particolarmente quelle ragguardevoli per l'allestimento della flotta, furono coperte in parte con una così detta contribuzione volontaria delle città etrusche, cioè col prodotto di una tassa di guerra imposta come punizione agli Aretini ed agli altri comuni che tenevano pei Cartaginesi, in parte dalle città della Sicilia.
La flotta fu pronta a spiegar le vele in quaranta giorni. La ciurma fu rinforzata da volontari, che all'appello dell'amato generale accorsero in numero di settemila da tutte le parti d'Italia.
Scipione fece quindi vela per l'Africa nel febbraio del 550=204 con due forti legioni di veterani (circa 30.000 uomini), quaranta navi da guerra e quattrocento navi onerarie, e approdò felicemente senza trovare il minimo ostacolo al «bel promontorio» (promontorium pulchrum) nelle vicinanze di Utica.