9. Parallelo tra Cartagine e Roma. 

Confrontiamo ora le forze di Cartagine con quelle di Roma. Entrambe erano città agricole e mercantili ad un tempo, ma mercantili prima di tutto. In entrambe, le arti e le scienze avevano una posizione subordinata e affatto pratica, ma si deve riconoscere che Cartagine, sotto questo aspetto, aveva fatto maggiori progressi di Roma.

In Cartagine l'economia del danaro prevaleva sull'economia del suolo, e in Roma avveniva l'opposto, e mentre gli agricoltori cartaginesi erano, nel tempo stesso, possidenti di latifondi e di schiavi, nella Roma di que' tempi la maggior parte de' cittadini lavorava con le proprie mani i suoi campi. La moltitudine era in Roma possidente e però conservatrice, in Cartagine era nullatenente e però accessibile all'oro dei ricchi come alle tentazioni dei democratici riformatori. In Cartagine regnava già tutta l'opulenza che è propria delle grandi città mercantili, mentre in Roma i costumi e la polizia mantenevano ancora, almeno in apparenza, la severità e la frugalità dei tempi antichi.

Quando gli ambasciatori cartaginesi ritornarono da Roma raccontarono ai loro colleghi che tra i senatori romani esisteva un'intesa meravigliosa, poichè lo stesso vasellame d'argento bastava per tutto il senato, avendolo essi trovato in tutte le case dove furono invitati a pranzo. Questa ironica narrazione è un indizio caratteristico della differenza delle condizioni economiche delle due città.

Tanto in Cartagine quanto in Roma la costituzione era aristocratica; come governava il senato a Roma governavano i giudici in Cartagine, e nell'una come nell'altra città prevaleva lo stesso sistema di polizia. La stretta subordinazione, nella quale il governo cartaginese teneva ciascun impiegato, l'ingiunzione fatta a tutti i cittadini di astenersi dallo studio della lingua greca e di comunicare coi Greci solo per mezzo del pubblico interprete, sono indizi dello stesso spirito di gelosia che si manifestava nel governo del senato romano; ma il sistema delle multe pecunarie e delle censure romane è mite e assennato se lo si paragoni alla atrocità ed all'arbitrio poco meno che brutali che si riscontrano nel pubblico controllo dei Cartaginesi.

Il senato romano, che accoglieva nel suo seno le più spiccate intelligenze, e che rappresentava la nazione e si sentiva penetrato dal suo spirito, poteva anche avere maggior fiducia nel popolo, e nel tempo stesso non avere timore dei proprii magistrati. Il senato cartaginese, invece, si fondava su una gelosa censura dell'amministrazione col mezzo del governo e rappresentava esclusivamente le famiglie nobili; il suo spirito era la diffidenza verso l'alto e verso il basso, per cui non poteva mai essere sicuro dell'ubbidienza del popolo, nè essere tranquillo circa le usurpazioni dei magistrati.

Da ciò il fermo andamento della politica romana, che nelle avversità non indietreggiava d'un sol passo e nella prospera fortuna non abusava per trascuratezza o per indifferenza; mentre i Cartaginesi desistevano di combattere quando un ultimo sforzo avrebbe forse salvato ogni cosa, e, stanchi o dimentichi dei loro doveri nazionali, lasciavano, a mezz'opera, cadere l'edifizio in rovina, per ricominciarlo dalle fondamenta pochi anni dopo; e mentre i migliori ufficiali pubblici si trovano in Roma d'ordinario in buoni rapporti col governo, in Cartagine sono spesso in decisa ostilità colla signoria, e spinti a resisterle fuor dai termini consentiti dalle leggi e a dar mano al partito dell'opposizione e delle riforme.

Cartagine e Roma dominavano su comuni della loro stessa stirpe e su molti comuni di stirpe straniera. Ma Roma era venuta aggregando alla sua cittadinanza, l'un dopo l'altro, i distretti interurbani ed aveva reso accessibile, per legge, questo diritto persino ai comuni latini; Cartagine, invece, si chiuse fin da principio in se stessa e non lasciò ai dipendenti territori nemmeno la speranza di ottenere in avvenire l'eguaglianza.

Roma concedeva ai comuni che le erano legati coi vincoli di consanguineità una parte dei frutti della vittoria, specialmente nelle terre conquistate, e si studiava di formarsi un partito negli altri stati dipendenti accordando favori ai nobili ed ai ricchi; Cartagine non solo teneva per sè ogni frutto delle vittorie, ma toglieva persino alle città più privilegiate la libertà del commercio.

Roma non privava di alcuna autonomia nemmeno gli infimi comuni soggetti, e non imponeva a nessuno di essi un tributo fisso; Cartagine inviava dappertutto i suoi governatori e imponeva gravi tributi persino alle antiche città fenicie; quanto ai popoli soggiogati, essa li trattava come veri schiavi dello stato. Ond'è che nella confederazione cartaginese-africana non v'era un sol comune, ad eccezione di Utica, il quale non fosse persuaso di poter migliorare, colla caduta di Cartagine, tanto le proprie condizioni politiche quanto quelle morali; nella confederazione romano-italica, invece, non v'era comune che non avesse più da perdere che da guadagnare ribellandosi contro un governo il quale metteva ogni cura nel rispettare gli interessi materiali, e per lo meno non provocava mai sollevazioni con eccessive misure.

Se gli uomini di stato cartaginesi credevano di aver legato i sudditi fenici all'interesse di Cartagine con lo spettro continuo di un'insurrezione delle genti libiche, e di essersi assicurati il concorso di tutti i possidenti mercè quella valuta convenzionale cui accennammo, essi s'illudevano con un calcolo da mercanti che spesso non ha valore nelle cose politiche; e infatti l'esperienza provò che la simmachia romana, sebbene sembrasse più rilassata e meno saldamente connessa, tenne fermo contro Pirro come un muro di roccia, mentre invece la simmachia cartaginese andò a brani come una ragnatela appena un esercito nemico ebbe messo piede sul suolo africano.

Così avvenne in occasione dello sbarco di Agatocle e di Regolo, così anche nella guerra dei mercenari. La prova dello spirito che regnava in Africa è il fatto che le donne della Libia dettero spontaneamente i loro gioielli ai mercenari per la guerra contro Cartagine.

Solo in Sicilia pare che i Cartaginesi si siano mostrati più benevoli e che abbiano quindi ottenuto migliori risultati. Essi accordarono ai loro sudditi dell'isola una relativa libertà nel commercio coll'estero e permisero che il loro traffico interno si svolgesse secondo il costume greco, con moneta metallica invece che con la moneta convenzionale di Cartagine e in generale era ai medesimi accordata una libertà molto maggiore di quella che avevano i Sardi ed i Libici.

Se Siracusa fosse venuta in loro potere, le cose sarebbero, senza dubbio, ben presto cambiate; ma ciò non avvenne, e quindi, in grazia dell'accorta mitezza del governo cartaginese e della malaugurata divisione dei Greci siciliani, si era formato in Sicilia un formidabile partito fenicio e ne sia prova la storia della lunga guerra scritta da Filino di Akragas, assolutamente di spirito fenicio, dopo che l'isola era venuta in potere dei Romani.

Ma infine anche i Siciliani, sia come sudditi, sia come liberi Elleni, non dovevano provare minor avversione pei loro padroni fenici di quella che mostravano i Sanniti ed i Tarentini pei Romani.

Le entrate delle finanze cartaginesi erano senza dubbio molto superiori a quelle dei Romani; ma questa differenza scompariva in parte perchè le sorgenti delle finanze cartaginesi, tributi e dazi, molto più facilmente si esaurivano che non quelle dei Romani, e proprio quando se ne aveva maggior bisogno, e in parte per il modo di guerreggiare dei Cartaginesi assai più dispendioso di quello dei Romani.

Le fonti da cui si traevano le forze militari dei Romani e dei Cartaginesi erano di natura molto diversa, e nondimeno, per molti rispetti, si equivalevano. La cittadinanza cartaginese, quando fu espugnata la città, saliva ancora a 700.000 abitanti comprese le donne ed i fanciulli[4] e si può ritenere che alla fine del quinto secolo fosse ancora così numerosa, se poteva armare ancora 40.000 opliti, tutti cittadini. Ma Roma aveva messo insieme un esercito della stessa forza al principio di quel secolo, e dopo l'allargamento dell'agro romano, avvenuto nel corso del quinto secolo, il numero dei Quiriti atti a portar armi deve essere cresciuto almeno del doppio.

Ma la superiorità di Roma non era tanto nel numero dei cittadini atti alle armi, quanto nella loro qualità. Per quanto il governo cartaginese si studiasse di indurre i cittadini al servizio delle armi, esso non poteva dare nè all'operaio nè al mercante la robustezza del contadino, nè vincere la innata avversione dei Fenici per la guerra.

Nel quinto secolo combatteva ancora negli eserciti siciliani una «Sacra schiera» di 2500 Cartaginesi, come guardie del duce; nel sesto secolo non si trova negli eserciti punici – per esempio nell'esercito di Spagna – un solo cartaginese, tranne gli ufficiali. I contadini romani invece non figuravano solo sui registri e nelle rassegne, ma si trovavano sui campi di battaglia. Lo stesso può dirsi dei connazionali delle due repubbliche. Le milizie latine non erano affatto inferiori alle stesse milizie urbane; i Libio-fenici invece non amavano il mestiere dell'armi più dei Cartaginesi, e quindi erano anche meno disposti ad affrontare le fatiche della guerra.

Ond'è che anch'essi scomparvero dagli eserciti e le città fenicie dell'Africa e della Spagna probabilmente, invece di mandare uomini e soldati, mandavano denari.

Nell'esercito in Spagna, forte di circa 15.000 uomini, non vi era che una brigata di 4500 cavalli, e questa era composta solo in parte di Libio-fenici. Nerbo degli eserciti cartaginesi erano i Libici, i quali, condotti da buoni ufficiali, davano una valida fanteria; la loro cavalleria leggera poi era insuperabile nel suo genere. A queste si aggiungevano le forze delle popolazioni della Libia e della Spagna più o meno dipendenti ed i famosi frombolieri delle Baleari che tenevano il posto tra i contingenti federali e le bande di mercenari; finalmente la soldatesca, che in caso di bisogno si arruolava all'estero.

Un esercito simile poteva bensì, in quanto al numero, essere aumentato senza difficoltà e, se si vuol considerare la valentia degli ufficiali, le cognizioni militari, il coraggio, poteva stare a fronte dell'esercito romano, ma quando la necessità imponeva di arruolare mercenari non solo si perdeva gran tempo prima di metterli in grado di entrare in campagna, mentre le milizie romane erano pronte ad ogni occasione, ma – e questo è il più – mentre nessun sentimento elevato, fuorchè l'onore della bandiera e la speranza dei premi, teneva uniti gli eserciti cartaginesi, i romani erano animati a combattere dall'amor patrio. L'ufficiale cartaginese di comune levatura doveva considerare i suoi mercenari, e anche gli stessi contadini della Libia presso a poco come ora in guerra si considerano le palle da cannone; da ciò le atrocità e le turpitudini, come fu il tradimento delle truppe libiche per opera del generale Imilcone (358=396) seguito da una minacciosa sollevazione dei Libici; da ciò quel detto divenuto proverbiale della «fede punica», che non fu di poco nocumento ai Cartaginesi.

Cartagine ha fatto lunga esperienza di tutti i pericoli ai quali eserciti, composti di fellah[5] e di mercenari, possono esporre uno stato, e ha potuto accorgersi più d'una volta, che i suoi servi pagati erano più pericolosi dei suoi nemici.

Il governo cartaginese non poteva ignorare i difetti d'un tale esercito e si studiava senza dubbio di porvi riparo. Curava soprattutto di tener ben provvedute le casse pubbliche e ben guarniti gli arsenali per essere in grado di assoldare armigeri ad ogni bisogno. Grandissima cura poneva inoltre a quegli armamenti che presso gli antichi tenevano luogo delle nostre artiglierie; faceva costruir macchine da guerra, arte nella quale troviamo d'ordinario i Cartaginesi superiori ai Siculi ed educava elefanti, dacchè questi avevano, nella tattica, fatto sopprimere gli antichi carri di guerra. Cartagine nelle sue casematte aveva scuderie per 300 di questi animali. Non osando i Cartaginesi fortificare le città vassalle, doveva lasciare che ogni esercito nemico, il quale potesse approdare in Africa, occupasse non solo il paese aperto, ma anche città e villaggi; precisamente l'opposto di quello che avveniva in Italia, ove la massima parte delle città soggette a Roma avevano conservato le loro mura e dove una rete di fortezze romane si stendeva sull'intera penisola. In compenso i Cartaginesi posero il sommo dell'arte e spesero tesori per fortificare la loro città, e più d'una volta lo stato dovette la sua salvezza alla solidità delle mura di Cartagine, mentre Roma era così difesa dal suo ordinamento politico e dal suo sistema militare, che non ebbe mai a sostenere un vero assedio.

Finalmente il principale baluardo dello stato punico era la flotta, alla quale erano rivolte tutte le cure del governo. Tanto nella costruzione navale quanto nel maneggio delle navi, i Cartaginesi superavano i Greci; in Cartagine furono costruiti i primi vascelli a più di tre ponti, ed i vascelli da guerra cartaginesi di quel tempo erano quasi tutti di cinque ponti, e generalmente migliori velieri di quelli greci; i rematori, tutti schiavi dello stato, e non tolti dalle galere, erano destri ed eccellentemente ammaestrati; i capitani impavidi.

In questo, Cartagine, era senza dubbio superiore ai Romani, i quali, con lo scarso numero delle navi degli alleati greci e col più scarso delle navi proprie, non erano in grado di mostrarsi in alto mare di fronte ad una flotta che in quel tempo dominava incontrastabilmente il mare occidentale.

Se riepiloghiamo quindi il risultato offertoci dal confronto dei mezzi delle due potenze, apparisce esatto il giudizio pronunciato da un Greco perspicace ed imparziale che cioè Cartagine e Roma, quando discesero in campo l'una contro l'altra erano due rivali degne di starsi a fronte.

Ma non possiamo tacere che, se Cartagine non lasciò intentata alcuna via per cui l'ingegno e la ricchezza potessero trovare e creare forze artificiali d'offesa e di difesa, non riuscì pero a supplire sufficientemente alle due deficienze fondamentali, di un esercito proprio di terra e di una salda e indipendente simmachia. Facile era l'accorgersi, che, come Roma non poteva essere attaccata se non in Italia, così Cartagine non era vulnerabile che nella Libia; e però non v'era dubbio, che a lungo andare essa non avrebbe potuto sottrarsi a questa prova.

In quei tempi, nei quali la navigazione era all'infanzia, le flotte non erano ancora una forza permanente delle nazioni, ma si potevano costruire in ogni luogo, ove fosse abbondanza di legname e di ferro, e opportunità di marine; ond'era naturale, e ne aveva fatta più d'una volta esperienza anche l'Africa, che gli stessi stati più potenti per la marineria non potevano impedire ai nemici meno potenti d'armarsi e d'approdare all'improvviso.

Dacchè Agatocle aveva tracciata la via dell'Africa, la poteva trovare anche un generale romano, e infatti in Italia si diede principio alla guerra punica col mandare in Africa un esercito d'invasione; e nello stesso modo furono terminate le guerre con Cartagine coll'assedio della capitale, nel quale, salvo casi eccezionali imprevisti, doveva finire per soccombere anche il più ostinato eroismo.

[1] La più esatta specificazione di questo importante ordine di città trovasi nel trattato cartaginese (Polib., 7, 9), dove da un lato per antitesi a quei di Utica, dall'altro per antitesi ai sudditi della Libia si chiamano; οἱ Καρχηδονίων ὕπαρχοι ὄσοι τοῖς αὐτοῖς νόμοις χρῶνται. Esse sono dette anche città federali (συμμαχίδες πόλεις (Diod. 20, 10) o città soggette a tributo (Liv. 34, 62; Giustino, 22, 7, 3). Dei loro connubi coi Cartaginesi fa menzione Diodoro, 20, 55; il diritto commerciale era certamente compreso nella «eguaglianza delle leggi». Che le antiche colonie fenicie appartengano ai Libio-fenici lo prova la designazione di Hippo come città libico-fenicia (Liv. 25, 40); e nel periplo di Annone, a proposito delle colonie fondate da Cartagine, troviamo scritto: «I Cartaginesi decisero che Annone navigasse oltre le colonne d'Ercole e vi fondasse città di Libio-fenici». In sostanza i Libio-fenici non erano considerati nello stato cartaginese come parte della nazione, ma come retti da uno speciale ius pubblico. Può quindi essere benissimo che il nome indichi grammaticalmente Libi misti con Fenici (Liv. 21, 22, aggiunta al testo di Polibio), come di fatto, almeno nella fondazione di colonie molto esposte, si univano sovente i Libi ai Fenici (Diod. 13, 79; Cic., pro Scauro, 42). L'analogia nel nome e nei rapporti di diritto tra i Latini di Roma ed i Libio-fenici di Cartagine è innegabile.
[2] Sembra che l'alfabeto libico o numidico, cioè l'alfabeto col quale i Berberi scrivevano e scrivono la loro lingua, che è uno dei moltissimi alfabeti derivati dall'originario alfabeto arameo, si approssimi, in alcune forme, a questi meglio che non il fenicio; ma da simile circostanza non può ancora trarsi la conclusione che i Libici non ricevessero la scrittura dai Fenici, ma da più antiche migrazioni, al modo stesso che le forme in alcune parti più antiche degli alfabeti italici non c'impediscono dal crederle derivate dall'alfabeto greco. Si deve piuttosto supporre che l'alfabeto libico sia derivato dal fenicio più antico in un'epoca anteriore a quella, nella quale furono scritti i monumenti della lingua fenicia pervenuti sino a noi.
[3] Φιδίτια nome del pubblico convito che Licurgo instituì in Lacedemone per quelli che avevano oltrepassato i venti anni.
[4] L'esattezza di questa cifra fu messa in dubbio, e computando lo spazio si giudicò impossibile che gli abitanti passassero il numero di 250.000. Astrazione fatta dall'esattezza di simili calcoli, trattandosi specialmente di una città mercantile con case a sei piani, si deve avvertire, che le anagrafi cartaginesi, appunto come le romane, sono censi politici e non territoriali e che in essi venivano compresi tutti i cittadini che abitassero in città e nel territorio, e che soggiornassero in paesi soggetti, o anche all'estero. Cartagine, naturalmente, contava gran numero di questi assenti; come si narra di Cadice, ove per lo stesso motivo la lista dei cittadini era sempre molto superiore al numero dei cittadini con dimora fissa in città.
[5] [Così l'autore, che aveva già paragonato la condizione dei campagnoli libici ridotti in servitù rustica dai Cartaginesi, ai fellah del moderno Egitto; cfr. § 5].
Storia di Roma
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