15. Roma e i romani di questo tempo.
Ma quando le due grandi nazioni, giunte entrambe al culmine del loro sviluppo naturale, furono costrette ad incontrarsi nelle loro relazioni, si manifestò subito spiccatamente il più reciso contrasto fra l'una e l'altra, mancando nella civiltà italica, e soprattutto nella romana, l'elemento dell'individualità se si raffronta coll'infinita, vigorosa, umana varietà dell'ellenismo.
Non vi è nella storia romana un'età più rigogliosa di quella che corre dall'istituzione del governo popolare sino alla sottomissione dell'Italia; in quest'età fu fondata la repubblica tanto nelle sue istituzioni interne quanto nella sua potenza esteriore; in quest'età fu unificata l'Italia; in questa età furono gettate le fondamenta tradizionali del diritto e della storia patria; in quest'età fu trovato il pilo ed il manipolo, fu cominciata la costruzione delle strade e dei canali, fu fondata l'economia rurale e monetaria; in quest'età fu fusa la lupa capitolina e fu disegnato il forzierino del Ficoroni.
Ma gli uomini, che portarono le pietre da cui sorse questo gigantesco edifizio, gli uomini che le posero insieme e le cementarono, sono scomparsi senza lasciare memoria di sè, e le popolazioni italiche non furono più compiutamente assorbite dalla popolazione romana di quello che fosse assorbito ogni cittadino romano dal comune di Roma. Nel modo che la tomba si chiude ugualmente sull'uomo notevole e sull'uomo da nulla, così nella serie dei consoli romani passa senza distinzione il gentiluomo comune a fianco del grande uomo di stato.
A riunire tutte le scarse memorie, che di quest'epoca giunsero sino a noi, non ve ne è alcuna che ci sembri più degna di rispetto, e nel tempo stesso più caratteristica, dell'epitaffio di Lucio Cornelio Scipione, che fu console l'anno 456 = 298, e che tre anni più tardi combattè nella giornata decisiva presso Sentinum. Sul bel sarcofago, di nobile stile dorico, che ancora ottant'anni fa chiudeva le ceneri del vincitore dei Sanniti, si legge scolpita la seguente leggenda:
Cornéliús Lucíus — Scípió Barbátus,
Gnaivód patré prognátus, — fórtís vir sapiénsque,
Quoiús fórma vírtu — teí parísuma fúit,
Consól censór aidílis — queí fuít apúd vos,
Taurásiá Císaúna — Sámnió cépit,
Subigít omné Loucánam — ópsidésque abdoúcit.
Cornelio Lucio — Scipione Barbato,
Generato da Gneo — uomo forte e saggio,
La sua bellezza era simile — alla sua virtù,
Console, censore, edile, — ei fu presso voi,
Sottomise Taurasia — Cisauna nel Sannio,
Soggiogò Lucania tutta — e seco trasse ostaggi.
Quel che qui leggiamo di questo guerriero e uomo di stato ad un tempo si sarà detto o potuto dire di moltissimi altri, che furono alla testa della repubblica romana; uomini nobili e belli, valorosi e prudenti; ma di nessuno si poteva dir di più. Nè si può far colpa al difetto della tradizione se fra tutti questi Corneli, Fabi, Papiri e altri, non ci vien fatto di trovare un uomo con risalto di qualità proprie ed individuali. Il senatore non doveva riuscire nè migliore nè peggiore di quello che in generale dovessero essere tutti i senatori; non è affatto necessario nè desiderabile che un cittadino si levi al disopra degli altri e si distingua coll'ostentazione di un sontuoso vasellame d'argento e di una raffinata coltura greca, e che soverchi gli altri nel sapere o nel credito. L'eccesso delle spese e della raffinatezza è punito dai censori, e l'eccellenza delle qualità personali non è in armonia colla costituzione repubblicana.
La Roma di questi tempi non appartiene ad alcun singolare individuo; i cittadini devono essere tra loro eguali affinchè ciascuno sia uguale ad un re.
In questi tempi però, mentre durava la rigorosa repubblica, già cominciavano ad intravvedersi le nuove grandezze della vita individuale, e anche tale tendenza, come la tendenza opposta, porta l'impronta di questa forte età. Nella quale non v'ha che un solo uomo, il quale sembri staccarsi dalla folla; ma, anch'egli, non è che l'incarnazione del pensiero del progresso. Appio Claudio (censore del 442 = 312 console del 447 = 307, 458 = 296), figlio del pronipote del decemviro, era il nobile più ambizioso del suo tempo; egli combattè l'ultima battaglia per gli antichi privilegi del patriziato, e siccome gli ultimi sforzi contro l'ammissione dei plebei al consolato erano stati fatti da lui, così aveva combattuto con maggior passione d'ogni altro contro i capi del partito popolare, Manlio Curio e i suoi partigiani. Tuttavia fu Appio Claudio colui che abolì la restrizione del pieno diritto cittadino comunale agli abitanti domiciliati e che fece cessare l'antico sistema finanziario.
Da Appio Claudio datano non solo gli acquedotti e le grandi strade, ma anche la giurisprudenza romana, l'arte oratoria, la poesia e la grammatica; al suo impulso è dovuta la compilazione del codice criminale, alle sue cure si attribuiscono i discorsi scritti e le sentenze pitagoriche e persino le innovazioni nell'ortografia. Nè in ciò v'è ombra di contraddizione.
Appio Claudio non era nè aristocratico, nè democratico; era ispirato dall'istinto degli antichi e dei nuovi re patrizi, dall'istinto dei Tarquini e da quello dei Cesari, fra i quali egli forma l'anello d'unione nell'interregno di cinquecento anni, pieno di fatti straordinari e di uomini ordinari.
Fino a tanto che Appio Claudio prese parte attiva al governo politico egli si mostrò ardito e petulante come un ateniese, tanto nella pubblica amministrazione come nella vita privata, non badando a combatter di fronte, come gli pareva meglio, leggi e costumanze; e anche molti anni dopo che si era ritirato dalla scena politica, questo vegliardo cieco, come fosse risorto dalla tomba, comparso nel momento decisivo in senato, vinse il re Pirro e proclamò per primo la egemonia e il predominio di Roma.
Ma quest'uomo di genio nacque troppo presto o troppo tardi; gli dei lo acciecarono appunto per la sua prematura sapienza. Non era il genio individuale che imperava su Roma e da Roma sull'Italia, ma una sola invariabile idea politica propagata da generazione in generazione, nel senato, dove i giovinetti delle famiglie senatorie, condotti dai loro padri alle adunanze, venivano uniformando i loro pensieri a quelli dei loro maggiori e si appropriavano l'esperienza di cui dovevano continuare la grande opera. Così si ottenevano quegli uomini, a cui dovevano un giorno succedere, ed i successi immensi, ma a prezzo di immensi sacrifizi, giacchè anche Nike, la dea dei vittoriosi, è seguita dalla propria Nemesi.
Nella repubblica romana l'uomo non vale che in forza delle istituzioni sociali; personalmente non si bada più al semplice gregario che al capitano; e sotto la rigida osservanza della disciplina morale e politica rimane soffocata ogni particolarità individuale.
Roma si levò a una grandezza meravigliosa, di cui non v'ha riscontro in alcuna società antica; ma pagò questa grandezza col sacrificio della bella e ricca varietà, dell'agevole spontaneità e della libertà spirituale propria della vita ellenica.