14. Espugnazione di Cartagine.
Asdrubale fece incendiare il porto esterno e si preparò a respingere lo aspettato assalto contro il koton; ma a Lelio riuscì di scalare le mura, solo appena difese dal presidio affamato, e di spingersi così fino nel porto interno.
La città era conquistata, ma il combattimento non era ancora alla fine. Gli assalitori occuparono la piazza del mercato attigua al piccolo porto e avanzarono lentamente nelle tre anguste strade conducenti dalla piazza alla cittadella – lentamente, poichè le poderose case, alte fino a sei piani, trasformate in altrettanti fortini dovettero essere scalate una dopo l'altra; dai tetti o su travi poste attraverso le strade il soldato penetrava da uno di questi edifizi fortificati in quello vicino o in quello dirimpetto e atterrava tutto ciò che gli si presentava dinnanzi.
Così trascorsero sei giorni, spaventosi per gli abitanti della città e non senza travaglio e pericolo per gli assalitori; finalmente questi giunsero dinanzi la scoscesa rocca sulla quale si erano ritirati Asdrubale col resto delle sue truppe. Per procurarsi una via più larga Scipione ordinò di incendiare le costruzioni delle strade conquistate e di spianarne le rovine, per il qual motivo perirono miseramente una quantità di persone inabili al combattimento, nascoste nelle case. Finalmente il resto della popolazione stipata nella rocca domandò grazia.
Fu loro concessa la sola vita e apparvero innanzi al vincitore 30.000 uomini e 20.000 donne, nemmeno la decima parti, dell'antica popolazione. Solo i disertori romani in numero di 900, il generale Asdrubale con sua moglie e i due suoi figli si erano riparati nel tempio di Dio della Salute; per essi, per i soldati disertori, come per gli assassini dei prigionieri romani nulla si era stabilito nel trattato.
Ma quando vinti dalla fame i più risoluti incendiarono il tempio, al cospetto della morte ad Asdrubale venne meno l'animo; solo, egli fuggì, si presentò al vincitore e supplicò in ginocchio per la sua vita. Questa gli fu concessa; ma quando sua moglie, che si trovava con i suoi figli, tra gli altri, sul tetto del tempio, lo scorse ai piedi di Scipione, sentì gonfiarsi il superbo cuore a quell'oltraggio fatto alla cara patria morente e, ammonendo con amare parole il marito di aver riguardo della sua vita, precipitò prima i figli e poi sè stessa nelle fiamme.
La lotta era alla fine. Il giubilo nel campo come in Roma fu senza limite; solo gli onesti si vergognavano in silenzio della nuova prodezza della nazione. I prigionieri furono per la maggior parte venduti schiavi; alcuni si fecero perire in carcere; i più ragguardevoli, Bitia e Asdrubale furono, come prigionieri di stato romani, internati in Italia e trattati discretamente. I beni mobili, eccetto l'oro e l'argento e le sacre offerte, furono abbandonati al saccheggio dei soldati; dei tesori dei templi, il bottino tolto in più felici tempi da Cartagine alle città siciliane fu a queste restituito, come ad esempio il Toro di Falaride agli Agrigentini; ogni altra cosa divenne proprietà romana.