9. Stato della cultura in Spagna.
In Spagna le città greche e fenicie del litorale, Emporia, Sagunto, Cartagena, Malaga, Cadice, si piegarono tanto più volenterose alla dominazione romana in quanto chè abbandonate a se stesse, non sarebbero state in grado di difendersi contro gl'indigeni.
Per gli stessi motivi la città di Marsiglia, sebbene più ragguardevole e più in grado di difendersi che non le suddette, aveva stretta alleanza coi Romani, pei quali divenne di grande vantaggio come stazione intermedia tra l'Italia e la Spagna, assicurandosi il loro possente appoggio.
Gli indigeni invece davano immensamente da fare ai Romani.
Non ci è possibile aver una chiara idea di una civiltà nazionale-iberica. Noi troviamo presso gli Iberi una scrittura nazionale molto diffusa, che si divideva in due rami principali; quello della valle dell'Ebro e quello dell'Andalusia, e probabilmente ciascuno di questi si suddivideva in parecchi altri, la cui origine sembra risalire a remotissimi tempi ed accostarsi piuttosto all'alfabeto greco antico che non al fenicio.
Dei Turdetani (presso Siviglia) si narra perfino, che possedessero delle canzoni di tempi antichissimi, che avessero un codice composto di 6000 versi metrici e delle memorie storiche.
Certamente questa popolazione ci viene indicata come più incivilita e nello stesso tempo la meno bellicosa fra le spagnuole, e infatti essa conduceva normalmente le sue guerre mediante mercenari.
A questo paese si riferiscono probabilmente anche le narrazioni di Polibio, dove parla dello stato fiorente dell'agricoltura e dell'allevamento del bestiame in Spagna, per cui, mancando i mezzi d'esportazione, il grano e la carne vi si vendevano a vilissimi prezzi, e dei sontuosi palazzi dei re, e dei vasi d'oro e d'argento pieni di «vino d'orzo».
Gli Spagnuoli, se non tutti, in parte adottarono con premurosa sollecitudine gli elementi di civiltà introdotti dai Romani, sicchè la romanizzazione fece progresso in Spagna prima che in qualunque altra provincia oltremarina. Così per esempio, fu introdotto fino da quell'epoca presso gli indigeni l'uso dei bagni caldi secondo il costume italico, e secondo tutte le apparenze fu la Spagna il primo paese fuori d'Italia dove la moneta romana non solo avesse corso, ma dove ancora venisse coniata; ciò che si comprende facilmente considerando le ricche miniere del paese.
Il così detto «argento d'Osca» (oggi Huesca nell'Aragona), cioè il denaro spagnuolo con iscrizioni iberiche, è ricordato sino dal 559=195, e l'inizio della coniazione non può venir fissato molto più tardi per motivo che il conio è fatto ad imitazione di quello dei più antichi denari romani.
Ma quand'anche nei paesi meridionali ed orientali i costumi degl'indigeni avessero facilitato la via alla civiltà ed alla signoria romana in modo da non trovare in nessun luogo seri ostacoli, l'occidente ed il settentrione invece, e tutto l'interno del paese erano abitati da numerose popolazioni più o meno rozze, quasi affatto ignare di coltura – in Intercatia per esempio ancora l'anno 600=154 non si conosceva l'uso dell'oro e dell'argento – le quali non vivevano in maggior armonia tra di loro che con i Romani.
Caratteristico è in questi liberi Spagnuoli lo spirito cavalleresco negli uomini, e certo non minore nelle donne. Quando una madre mandava il figlio in battaglia, essa lo animava col racconto dei fasti dei suoi avi, e la più bella vergine offriva, spontanea amante, la destra di sposa al più valoroso. Il duello era comune, sia per la palma del valore, sia per comporre le differenze processuali e persino per le questioni ereditarie che sorgevano fra parenti di famiglie principesche.
E non di rado accadeva che un guerriero di bella fama comparisse innanzi le file nemiche sfidando un avversario per nome. Il campione soccombente consegnava allora al vincitore la spada ed il mantello e stringeva con esso relazioni d'amicizia.
Vent'anni dopo finita la guerra annibalica, il piccolo comune celtibero di Complega (posto in vicinanza alle sorgenti del Tago) mandò un messaggero al generale romano invitandolo a fargli pervenire un cavallo, un mantello ed un brando per ogni individuo rimasto morto, diversamente gliene sarebbe derivato male.
Fieri del loro onore militare in modo che sovente non sapevano sopravvivere all'onta di venir disarmati, gli Spagnuoli erano pure pronti a seguire ogni arruolatore ed a porre a repentaglio la loro vita per qualunque estraneo litigio.
È significante l'ambasciata spedita da un generale romano bene informato dei costumi del paese ad una truppa assoldata dai Turdetani combattente contro i Romani: o di ritornarsene a casa, o di entrare a servizio dei Romani con doppio soldo, o di fissare il giorno ed il luogo per la battaglia. Quando non si presentava nessun ufficiale ingaggiatore, si organizzavano in drappelli di volontari per saccheggiare i luoghi tranquilli e perfino per prendere ed occupare le città, proprio come si praticava nella Campania.
Quanto fosse selvaggio e malsicuro il paese interno lo prova il fatto che la deportazione nel paese posto ad occidente di Cartagena era considerato presso i Romani come una grave pena, e che in tempi anche di lieve agitazione i comandanti romani di quelle regioni spagnuole si facevano scortare sino da 6000 uomini.
Ancora più evidentemente lo prova il commercio singolare che i Greci esercitavano coi loro vicini Spagnuoli nella città greco-ispana d'Emporia, che sorgeva sulla punta orientale dei Pirenei. I coloni greci, stabiliti su una penisola separata per mezzo di mura dal quartiere spagnuolo, facevano occupare questo muro tutte le notti dalla terza parte delle loro milizie, e un impiegato superiore era incaricato di custodire continuamente l'unica porta che vi esisteva: nessun spagnuolo poteva metter piede nella città greca ed i Greci recavano agl'indigeni le loro merci solo accompagnati da numerose scorte.