5. Pompeo.
Tra gli uomini che non erano nè assoluti fautori, nè aperti avversari della costituzione di Silla, nessuno attirava maggiormente l'attenzione della moltitudine sopra di sè, quanto il giovane Gneo Pompeo, il quale, nato il 29 settembre 648 = 106, contava 28 anni quando morì Silla.
Fu ciò una sventura pel giovane ammirato non meno che per i suoi ammiratori; ma essa era naturale. Sano di corpo e di mente, famoso ginnasta, che anche quando divenne ufficiale superiore saltava, correva e alzava pesi a gara coi suoi soldati, gagliardo e destro cavaliere e schermidore, temerario condottiero di bande, questo giovane era divenuto imperatore e trionfatore in un'età che lo escludeva da ogni carica e dal senato, e occupava nella pubblica opinione il primo posto accanto a Silla; anzi, in parte per convincimento, in parte per ironia, lo stesso arrendevole dittatore gli aveva dato il titolo di Grande.
Sfortunatamente le sue doti intellettuali non corrispondevano affatto a tali inauditi successi. Egli non era nè cattivo nè inetto, ma un uomo assolutamente comune, destinato dalla natura ad essere generale ed uomo di stato. Era avveduto, valoroso ed esperto; distinto soldato sotto ogni aspetto, però, anche come uomo d'armi, senza doti elevate; come generale e in tutte le sue azioni egli soleva procedere con una prudenza che era vicina alla timidezza, e portava, se era possibile, il colpo decisivo solo quando si accorgeva d'essere nella massima superiorità di forze di fronte all'avversario.
La sua coltura era quella comune dell'epoca; sebbene fosse soldato sino alle midolle, non omise, arrivato a Rodi, di premiare e di ammirare, come si usava allora, quei maestri dell'arte oratoria.
La sua rettitudine era quella dell'uomo ricco, che colla sua cospicua sostanza avita e acquistata sa tenere casa giudiziosamente; egli non disdegnava di procacciarsi denaro nel modo usato dei senatori, ma era troppo freddo calcolatore e troppo ricco per esporsi per tale motivo a pericoli di qualche entità od alla pubblica vergogna.
La malvagità venuta di moda fra i suoi contemporanei, gli procacciò, più della sua propria virtù, la fama – relativamente ben meritata – di uomo abile e disinteressato. La «sua faccia onesta» era quasi divenuta proverbiale, e anche dopo la sua morte egli fu detto uomo di merito e specchio di moralità; infatti era un buon vicino, che non seguiva l'uso dei grandi di quel tempo, i quali estendevano i confini dei loro possedimenti con acquisti forzati, e, peggio, a spese dei vicini agiati, e nella vita domestica egli si mostrò affezionato alla moglie e ai figli. Ridonda inoltre a suo onore d'essersi per primo scostato dal barbaro costume di far porre a morte i re e i duci fatti prigionieri, dopo che avevano servito di spettacolo nei trionfi.
Ma ciò non tolse che, per ordine di Silla, suo signore e padrone, si dividesse dalla sua amata consorte perchè appartenente ad una famiglia proscritta, e che, dietro un cenno del medesimo, egli facesse colla massima imperturbabilità eseguire sotto i suoi occhi le sentenze di sangue pronunciate contro uomini che l'avevano aiutato in tempi difficili. A torto lo si disse crudele; egli, ciò che forse è peggio, era freddo e senza passione, nel bene come nel male.
Nel tumulto della mischia, sul campo di battaglia si mostrava impavido; nella vita privata era uomo timido, che arrossiva ad ogni minima occasione, che non sapeva parlare pubblicamente senza imbarazzo, e che si mostrava angoloso, rigido e impacciato nella conversazione.
Non ostante la sua caparbietà era, come sono generalmente coloro che fan pompa di essere indipendenti, un docile strumento nelle mani di quelli che sapevano l'arte di prenderlo, specialmente dei suoi liberti e dei suoi clienti, dai quali egli non temeva di essere dominato.
A nessuna cosa era meno capace che ad essere uomo di stato. Incerto nei suoi scopi, poco abile nella scelta dei mezzi, di corta vista nelle cose di piccola e di grande importanza e poco destro, Pompeo soleva nascondere i suoi tentennamenti e la sua incertezza sotto un solenne silenzio; e quando voleva fare l'astuto ingannava sè stesso, credendo di ingannare gli altri. Per la sua carica militare e per i suoi rapporti civili, gli si accostò, senza che egli se ne desse la menoma cura, un considerevole partito, a lui personalmente devoto, col quale avrebbe potuto venire a capo delle più grandi cose; ma Pompeo era sotto ogni aspetto incapace a dirigere e a tenere insieme un partito, e se questo partito ciò malgrado si teneva unito, avveniva senza la sua cooperazione, per la sola forza di gravità delle circostanze.
Sotto questo aspetto e sotto altri rapporti egli rassomiglia a Mario; ma Mario con i suoi modi villani, con le sue passioni sensuali è ancora meno insopportabile di questa stucchevolissima fra tutte le copie di grandi uomini.
La sua posizione politica era assolutamente falsa. Egli era ufficiale di Silla e come tale obbligato a sostenere la costituzione restaurata, ed era insieme in opposizione con Silla e con tutto il regime senatorio. La famiglia dei Pompei, che solo da circa sessant'anni figurava sulle liste consolari, non era ancora considerata dall'aristocrazia come sua eguale; il padre di questo Pompeo, si era poi anche messo in una odiosissima ed ibrida posizione contro il senato, ed egli stesso aveva già appartenuto al partito dei seguaci di Cinna; memorie che si passavano sotto silenzio, ma che non si dimenticavano.
La posizione eminente che Pompeo si era procurata sotto Silla lo inimicava in segreto con l'aristocrazia appunto quanto apparentemente lo stringeva ad essa. Testa leggera, Pompeo fu preso dalle vertigini quando fu all'apice della gloria, cui era pervenuto così rapidamente e così facilmente. Come se volesse egli stesso schernire la sua natura assolutamente prosaica confrontandola con quella del più poetico fra gli eroi, egli cominciò a paragonarsi ad Alessandro Magno, e a considerarsi come un personaggio unico, a cui non s'addiceva d'essere soltanto uno dei cinquecento senatori romani. Infatti nessuno meglio di lui era creato per essere membro di un governo aristocratico.
L'esteriore dignità di Pompeo, le sue maniere gravi, il suo valore personale, l'onorevole sua vita privata, la sua astensione da qualsiasi iniziativa, gli avrebbero, se fosse nato due secoli prima, ottenuto un posto onorifico accanto a Quinto Massimo e a Publio Decio; questa mediocrità assolutamente aristocratica, e assolutamente romana, non contribuì affatto a quella affinità elettiva, che esistè sempre fra Pompeo e la maggioranza della borghesia del senato.
Anche ai suoi tempi vi sarebbe stata per lui una posizione netta e rispettabile, se avesse voluto accontentarsi di essere il capitano del senato, per la qual carica era nato, ma ciò non gli bastava, e quindi si mise nella fatale posizione di voler essere qualche cosa di diverso da quello che poteva essere.
Mirava costantemente ad una posizione singolare nello stato, eppure, quando l'occasione se ne presentava, non sapeva risolversi ad afferrarla; s'irritava profondamente se persone e leggi non si piegavano ciecamente ai suoi voleri e tuttavia egli stesso si mostrava con una modestia, non solo affettata, come uno dei molti egualmente privilegiati, e tremava al solo pensiero di fare alcunchè di contrario alla costituzione.
Così, in continua tensione coll'oligarchia e nel tempo stesso suo devoto servitore, tormentato costantemente da una ambizione che si spaventava davanti alla sua propria mèta, trasse gli agitati suoi giorni senza alcuna soddisfazione e in una eterna contraddizione con sè stesso.