7. Rottura tra Roma e Cartagine.
Annibale, immediatamente dopo la sua nomina (primavera 534=220), decise di cominciare la guerra. Durando ancora il fermento nel paese dei Celti, e sembrando vicina una guerra tra Roma e la Macedonia, egli aveva buone ragioni per irrompere immediatamente e portare la guerra ove meglio gli accomodasse prima che i Romani lo prevenissero con uno sbarco in Africa.
Il suo esercito non tardò ad essere pronto e a mettersi in marcia, la cassa fu riempita esuberantemente mercè alcune razzie in grande stile: ma il governo cartaginese si mostrava tutt'altro che voglioso d'inviare a Roma la dichiarazione di guerra.
Il posto di Asdrubale, capo del partito patriottico in Cartagine, era più difficile da assumere che non il posto di Asdrubale generale in Spagna.
Prevaleva allora in Cartagine il partito della pace, il quale perseguitava i capi del partito della guerra, con processi politici. Questo partito, che aveva già tarpato le ali ai piani di Amilcare, non era affatto propenso a permettere che lo sconosciuto giovine, il quale ora comandava in Spagna, spingesse tant'oltre, a spese dello stato, il suo giovanile patriottismo, mentre ad Annibale ripugnava di far lui direttamente la dichiarazione di guerra in aperta opposizione alle legittime autorità.
Egli si studiò di spingere i Saguntini a rompere la pace, ma essi si accontentarono di rivolgere le loro lagnanze a Roma. Venuta quindi da Roma una commissione, egli tentò di spingerla alla dichiarazione di guerra coll'insolente suo contegno; ma i commissari intuirono il suo pensiero, tacquero in Spagna per poter portare le loro rimostranze a Cartagine e per riferire a Roma che Annibale era pronto alla lotta e che la guerra era imminente.
Intanto passava il tempo; già era pervenuta la notizia della morte di Antigono Dosone, mancato repentinamente quasi nello stesso tempo d'Asdrubale; nella parte dell'Italia occupata dai Celti i Romani, con raddoppiata celerità ed energia, spingevano la costruzione delle fortezze, e disponevano ogni cosa per farla finita nella prossima primavera anche colla sollevazione dell'Illiria. Ogni giorno era prezioso; Annibale si decise.
Egli fece senz'altro sapere a Cartagine che i Saguntini oltraggiavano i Torboleti, sudditi cartaginesi, e che perciò egli aveva deciso di attaccarli; e senza attendere la risposta, nella primavera del 535=219, intraprese l'assedio della città alleata a Roma, il che equivaleva ad una dichiarazione di guerra fatta ai Romani.
Cosa se ne pensasse, e quale partito si prendesse in Cartagine lo si può immaginare forse ricordando l'impressione prodotta in certi circoli della Germania dalla notizia della capitolazione di York[3]. Tutti «gli uomini più ragguardevoli» si andava dicendo «disapprovavano l'attacco fatto senz'ordine ricevuto»; si parlava di non riconoscere l'operato, di imprigionare l'ardito generale. Sia però che nel consiglio cartaginese prevalesse il timore più immediato dell'esercito e della moltitudine che quello di Roma, sia che si comprendesse l'impossibilità di recedere da un simile passo una volta fatto, o che l'inerzia fosse così grande da impedire di prendere una decisiva risoluzione, il fatto sta che si prese il partito di non risolversi a nulla, e di non far la guerra, ma di lasciar che si facesse.
Sagunto si difese come sanno difendersi le città spagnuole; se i Romani avessero manifestato una minima parte dell'energia spiegata dai loro protetti, e se non avessero sciupato gli otto mesi che durò l'assedio di Sagunto nella miserabile guerra contro i pirati dell'Illiria, essi, padroni del mare e di buoni porti, avrebbero potuto risparmiarsi l'onta della promessa e mancata protezione, e dare forse alla guerra una direzione diversa.
Ma essi tentennarono e la città fu finalmente espugnata. Quando Annibale spedì a Cartagine il bottino perchè venisse distribuito, si ridestò il patriottismo e il desiderio di guerra in molti di coloro che prima erano rimasti indifferenti; la distribuzione poi del bottino rese impossibile ogni riconciliazione con Roma.
Quando poi, dopo la distruzione di Sagunto, arrivarono a Cartagine gli ambasciatori romani chiedendo la consegna del generale e dei gerusiasti che si trovavano nel campo, e quando l'oratore romano, interrompendo la giustificazione tentata dai Cartaginesi, mise fine alla discussione e, raccogliendo un lembo del suo manto in una mano, disse, che in quella egli teneva la pace e la guerra, i gerusiasti ebbero il coraggio di rispondere che lasciavano a lui la scelta.
Ed egli scelse la guerra che essi accettarono (primavera del 536=218).