9. Situazione di Roma.
Il senato romano era in una di quelle situazioni come capitano talora anche alle aristocrazie ben consolidate, ma di vista limitata. Ben si sapeva quel che si voleva, e molte cose si facevano, ma nulla si faceva bene ed a tempo debito.
I Romani avrebbero potuto essere da lungo tempo padroni dei passi delle Alpi ed averla finita con i Celti; eppure quelli erano ancora liberi, e questi erano ancora formidabili. Avrebbero potuto vivere in pace con Cartagine quando avessero rispettato il trattato del 513=241, o, non volendolo, Cartagine avrebbe potuto da lungo tempo essere soggiogata; quel trattato era stato rotto di fatto coll'occupazione della Sardegna; eppure si lasciarono a Cartagine vent'anni perchè ricostituisse le sue forze senza molestia. Non era difficile mantener la pace colla Macedonia: ciò non di meno, per un meschino guadagno, se ne perdette l'amicizia.
Deve essere mancato un uomo di stato che avesse il talento di guidare e dominare nel loro insieme gli avvenimenti; da per tutto si era fatto troppo o troppo poco.
Ora cominciava la guerra, per la quale si era lasciata al nemico la scelta del tempo e del luogo, e, appoggiandosi al sentimento, pur ben fondato, della propria superiorità militare, non si sapeva che cosa risolvere intorno all'andamento e allo scopo delle prime operazioni.
I Romani potevano disporre di più di mezzo milione di buoni soldati; soltanto la loro cavalleria era meno buona, e in proporzione meno numerosa, della cartaginese, ammontando quella ad un decimo, questa ad un ottavo delle truppe complessive messe in campagna.
Nessuno degli stati, che avevano rapporto con questa guerra, possedeva una flotta corrispondente da contrapporre a quella di Roma composta di 220 quinqueremi, la quale faceva appunto ritorno dall'Adriatico al Mediterraneo occidentale.
Il modo più naturale ed adatto d'impiegare queste forze risultava da sè. Era deciso da lungo tempo che la guerra dovesse incominciare con uno sbarco in Africa; gli avvenimenti posteriori costrinsero i Romani ad introdurre nei loro piani di guerra anche uno sbarco contemporaneo nella penisola iberica, specialmente per non incontrare l'esercito di Spagna sotto le mura di Cartagine.
I Romani, seguendo questo piano (allorchè al principio del 535=219 fu iniziata la guerra da Annibale) coll'attacco di Sagunto, prima che la città cadesse in potere dei Cartaginesi, dovevano prima di tutto inviare un esercito in Spagna; ma essi, come avevano obliato le leggi dell'onore, così trascuravano quelle dell'interesse. Indarno Sagunto resistette otto mesi; quando si arrese, Roma non era nemmeno apparecchiata per fare uno sbarco in Spagna.
Il paese tra i Pirenei e l'Ebro era però ancora libero, e quei popoli non erano soltanto i naturali alleati dei Romani, ma anch'essi, come i Saguntini, erano stati assicurati da emissari romani che sarebbero stati prontamente soccorsi.
Dall'Italia si arriva alla Catalogna, per mare, in minor tempo che da Cartagena per terra. Se dopo la dichiarazione di guerra, seguìta in questo frattempo, i Romani si fossero messi in marcia nel mese di aprile come i Cartaginesi, Annibale avrebbe potuto scontrarsi colle legioni romane sulla linea dell'Ebro.
È vero che la maggior parte dell'esercito e della flotta furono preparati per passare in Africa, e che fu ordinato al secondo console Publio Cornelio Scipione di portarsi sulla linea dell'Ebro; ma questi non si dette premura, ed essendo scoppiata una sollevazione sulle rive del Po, egli si servì dell'esercito pronto all'imbarco per reprimerla.
È vero che Annibale trovò sull'Ebro un'accanita resistenza, ma per opera dei soli indigeni, resistenza che egli superò in pochi mesi, sacrificandovi la quarta parte del suo esercito; poichè per lui doveva essere assai più prezioso il tempo che non il sangue dei suoi soldati. La linea dei Pirenei era raggiunta.
Come si poteva prevedere che, per l'indugio, gli alleati di Roma sarebbero rimasti sacrificati una seconda volta, così avrebbe dovuto esser facile evitare l'indugio stesso. È anzi verosimile che la stessa spedizione in Italia (di cui a Roma non si deve aver avuto sentore nemmeno nella primavera del 536=218) sarebbe stata stornata, se i Romani fossero arrivati in tempo utile in Spagna.
Annibale non aveva affatto l'intenzione di gettarsi sull'Italia come un disperato, rinunziando al suo «regno» spagnuolo. Il tempo ch'egli aveva impiegato ad espugnare Sagunto ed a soggiogare la Catalogna, il ragguardevole corpo di truppe ch'egli lasciava per l'occupazione del territorio nuovamente conquistato tra l'Ebro ed i Pirenei, provano a sufficienza che, se un esercito romano gli avesse conteso il possesso della Spagna, egli non si sarebbe accontentato di ritirarsene. Anzi – e questo è il più importante – se i Romani fossero stati capaci di ritardargli, anche solo di poche settimane, la sua partenza dalla Spagna, l'inverno avrebbe chiusi i passi delle Alpi prima che Annibale li raggiungesse, e la spedizione in Africa avrebbe potuto raggiungere la sua meta senza incontrare ostacoli di sorta.
Arrivato ai Pirenei, Annibale accordò ad una parte delle sue truppe il congedo per ritornare nell'interno del proprio paese; misura questa che doveva provare ai soldati la fiducia che in essi riponeva il loro capitano.
Con un esercito di 50.000 fanti e 9000 cavalieri, tutti veterani, Annibale valicò senza difficoltà i Pirenei, e prese poscia la via lungo il litorale, passando per Narbona e Nimes, attraverso il paese dei Celti che gli fu schiuso in grazia degli accordi precedentemente conchiusi, sia col mezzo dell'oro cartaginese, sia colla forza delle armi.
Giunto (sul finire del luglio) alle sponde del Rodano, di fronte ad Avignone, sembrò che dovesse incontrare per la prima volta una seria resistenza.
Il console Scipione, che nel recarsi in Spagna s'era fermato a Marsiglia (verso la fine del giugno), s'accorse qui di essere arrivato troppo tardi e che Annibale non solo aveva già passato l'Ebro, ma anche i Pirenei.