3. Forche Caudine.
Il Sannio rimaneva così interamente isolato; soltanto alcuni dei distretti montuosi orientali gli mandarono contingenti. Coll'anno 428 = 326 cominciò la guerra entro lo stesso paese sannitico ed i Romani occuparono alcune città ai confini della Campania, come Rufrae (tra Venafro e Teano) e Allifae. Negli anni seguenti gli eserciti romani, combattendo e saccheggiando, traversarono il Sannio nel territorio dei Vestini, e s'inoltrarono sino all'Apulia, ove furono accolti a braccia aperte, riportando ovunque i più decisivi vantaggi.
I Sanniti si perdettero d'animo; rimandarono i prigionieri romani, e insieme ad essi il cadavere del capo del partito della guerra Brutulo Papio – il quale aveva prevenuto i carnefici romani – dopo che la repubblica sannitica ebbe deliberato di domandare la pace al nemico, e, mediante la consegna del più valoroso loro duce, sperando di ottenere più miti condizioni.
Ma non essendo stato accolto dal popolo di Roma l'umile e quasi supplichevole preghiera (432 = 322), i Sanniti ripresero le armi sotto il loro nuovo duce Gavio Ponzio, e si disposero a difendersi disperatamente.
L'esercito romano che, capitanato da entrambi i consoli del seguente anno 433 = 321 Spurio Postumio e Tito Veturio, era accampato presso Calazia (tra Caserta e Maddaloni), ebbe notizia, confermata da gran numero di prigionieri, che i Sanniti avevano stretto d'assedio Luceria, e che questa città, da cui dipendeva il possesso dell'Apulia, era in grave pericolo.
Si levarono in fretta gli alloggiamenti. Per arrivare in tempo non si poteva prendere che una via, la quale attraversava il territorio nemico, là dove in continuazione della via Appia fu poscia costruita la via romana che da Capua, per Benevento, sbocca verso l'Apulia. Questa via conduceva tra i monti che stanno presso le attuali borgate di Arpaia e Montesarchio e riusciva ad un fondo valle acquitrinoso, circondato da alte e scoscese colline selvose, da cui non si poteva nè entrare nè uscire che per gole e forre anguste. Qui i Sanniti s'erano posti in imboscata. I Romani, che s'erano inoltrati senza incontrare ostacoli nella valle, trovarono sbarrato con una trincea di alberi abbattuti e saldamente difeso il capo della valle dal quale dovevano uscire. Tornando indietro si accorsero che l'ingresso era sbarrato nello stesso modo e videro ad un tempo le creste dei monti coronarsi di coorti sannitiche.
Troppo tardi compresero i Romani di essersi lasciati trarre in errore da uno strattagemma e che i Sanniti non li aspettavano già presso Luceria, sibbene nelle fatali strette di Caudio. Si combattè, ma senza speranza di successo e senza scopo; l'esercito romano era nell'assoluta impossibilità di ordinarsi e difendersi e fu vinto compiutamente senza combattere.
Solo goffi retoricanti poterono immaginare che il capitano dei Sanniti fosse in dubbio di scegliere tra il rimandare sano e salvo l'esercito romano e lo sterminarlo; egli non poteva far nulla di meglio che accettare l'offerta capitolazione e far prigioniero l'esercito romano, nel quale erano riunite tutte le forze attive della repubblica con i due duci supremi.
A Gavio Ponzio si apriva la via alla Campania ed al Lazio, e nelle condizioni di allora, in cui i Volsci e gli Ernici e la massima parte dei Latini l'avrebbero accolto a braccia aperte, avrebbe messo in gravissimo pericolo Roma.
Ma invece di prendere questo partito e di stipulare una convenzione militare, Gavio Ponzio pensò di poter metter fine ad ogni contesa con un buon trattato di pace, sia che egli dividesse la dissennata smania dei confederati per la pace, onde l'anno prima fu vittima Brutulo Papio, sia che non fosse più in grado di resistere al partito che ogni giorno più avversava la guerra, il che gli mandò a male una vittoria che non aveva avuto l'eguale.
Le condizioni proposte erano abbastanza moderate: Roma facesse atterrare le piazze forti di Cales e di Fregellae costruite contro il tenore dei trattati, e rinnovasse la federazione d'eguaglianza col Sannio.
Accettate che ebbero i duci romani queste condizioni di cui garentirono la fedele esecuzione con seicento ostaggi scelti tra la cavalleria e col giuramento prestato dai supremi capitani e da tutti gli ufficiali dello stato maggiore, l'esercito romano fu lasciato partire illeso ma disonorato, giacchè l'esercito sannitico, ebbro della vittoria, non potè essere indotto a risparmiare agli odiati nemici la riprovevole cerimonia della deposizione delle armi e di passare sotto la forca.
Ma il senato romano non curando il giuramento degli ufficiali e la sorte degli ostaggi, cassò la capitolazione e si limitò a consegnare ai nemici coloro che l'avevano conclusa, come i soli personalmente responsabili della sua esecuzione.
Alla storia imparziale poco deve importare che la scienza casistica dei giureconsulti e della pretoria romana non abbia con ciò rispettata la lettera del diritto o che il senato abbia risolutamente rotto i patti; ma a considerare questo fatto sotto il rispetto morale e politico non pare che esso debba riuscire a biasimo dei Romani.
Poco importa se il generale fosse o non fosse autorizzato, secondo la formale ragion di stato, a conchiudere la pace senza riservarne la ratificazione alla repubblica; e a dir vero, secondo lo spirito e la pratica della costituzione, era fuor di dubbio, che qualunque trattato, il quale non fosse assolutamente militare, dovesse riguardarsi di competenza del potere civile.
Era ben altro l'errore del capitano dei Sanniti, il quale aveva lasciata ai consoli la scelta tra il salvare l'esercito e i loro poteri, che non l'errore dei consoli, i quali non ebbero la magnanimità di respingere assolutamente questa tentazione.
E se il senato romano rifiutò di sanzionare questo trattato, faceva cosa giusta e necessaria. Nessuna grande nazione cede ciò che possiede se non costrettavi da suprema necessità; tutti i trattati di cessione sono prove di necessità e non obblighi morali. Se ogni popolo ripone il proprio onore nel lacerare colla forza delle armi i trattati umilianti, come poteva l'onore imporre ai Romani di rassegnarsi ad un trattato come quello di Caudio, a cui fu costretto da una violenza morale un infelice capitano, o di rassegnarvisi nel momento stesso, nel quale la vergogna del patito vituperio era resa ancora più cocente dal pieno sentimento della propria forza?