23. Magone in Italia.
Del resto Roma non si curava troppo di mettere fine alla guerra. Lo stato ed i cittadini erano esausti per gli straordinari sforzi morali e materiali e si abbandonavano quindi volentieri alla noncuranza ed al riposo.
L'esercito e la flotta vennero ridotti; i contadini romani e latini rimandati alle loro abbandonate fattorie, e le casse pubbliche riempite col ricavo della vendita d'una parte dei beni demaniali della Campania. Fu riordinata l'amministrazione dello stato, si tolsero gli invalsi abusi; si incominciò a restituire il prestito volontario di guerra, e si costrinsero i comuni latini, rimasti in mora, a soddisfare con grossi interessi ai mancati loro obblighi.
La guerra in Italia sostò. Fu una luminosa prova del talento strategico d'Annibale e nel tempo stesso dell'inettitudine dei generali romani, che allora gli stavano a fronte, se egli potè rimanere per altri quattr'anni nel paese dei Bruzi, e se i suoi avversari, disponendo di maggiori forze, non lo poterono costringere a chiudersi nelle fortezze o ad imbarcarsi.
È bensì vero che fu obbligato a ritirarsi sempre più, non già in conseguenza d'inconcludenti combattimenti sostenuti coi Romani, ma a motivo dei suoi alleati Bruzi che gli si mostravano sempre più ostili; sicchè alla fine fu ridotto a non poter fare assegnamento che sulle città tenute dalle sue truppe.
Egli abbandonò perciò spontaneamente Turio; Locri fu rioccupata per opera di Publio Scipione da una divisione spedita da Reggio (549=205).
Le autorità cartaginesi, quasi volessero dare una luminosa sanzione, negli ultimi momenti, ai piani d'Annibale, che esse avevano rovinati, trovandosi nell'ansia per il temuto sbarco dei Romani ricorsero finalmente a quegli stessi suoi piani (548-9=206-5) e mandarono rinforzi e sussidi ad Annibale in Italia ed a Magone in Spagna, coll'ordine di ricominciare la guerra in Italia e d'ottenere coll'armi un altro po' di respiro ai tremanti proprietari delle ville nella Libia ed ai bottegai di Cartagine.
Un'altra ambasceria inviarono nella Macedonia per decidere Filippo a rinnovare il trattato d'alleanza e ad effettuare lo sbarco in Italia (549=205).
Ma era troppo tardi. Filippo pochi mesi prima aveva fatto la pace coi Romani; l'imminente rovina politica di Cartagine non tornava a lui opportuna, ma, almeno palesemente, egli nulla fece contro Roma. Fu spedito un piccolo corpo macedone in Africa, che Filippo, al dire dei Romani, pagava dalla sua cassetta; il che sarebbe stato naturale, ma, come lo dimostra l'ulteriore andamento delle cose, i Romani non ne avevano per lo meno alcuna prova. Quanto ad uno sbarco di truppe macedoni in Italia non vi si pensò nemmeno.
Il più giovane dei figli di Amilcare, Magone, comprese più seriamente il suo compito. Con i resti del suo esercito spagnuolo, che da prima egli aveva condotto a Minorca, sbarcò nell'anno 549=205 presso Genova, distrusse la città e fece appello ai Liguri ed ai Galli, i quali vennero in frotta, come sempre, attirati dall'allettamento dell'oro e della novità dell'impresa. Egli estese persino le sue relazioni a tutta l'Etruria, ove continuavano incessantemente i processi politici.
Ma le truppe ch'egli aveva seco erano troppo scarse per riuscire in un'impresa seria contro l'Italia propriamente detta, e Annibale era egualmente troppo debole e la sua influenza nella bassa Italia troppo scaduta per poter procedere innanzi con probabilità di successo. I signori di Cartagine non avevano voluto salvare la patria quando era possibile; ora che lo volevano era troppo tardi.