7 Agricoltura.
Tutti gli indizi accennano che, mentre nella originaria comunione indo-germanica le tribù conducevano verosimilmente una vita pastorale e conoscevano forse soltanto lo stelo selvatico del grano, nella comunione della famiglia greco-italica già si conosceva la coltivazione de' cereali e forse anche della vite. A provare l'antica unità dei due popoli (greco e italico) non varrebbe però la somiglianza dell'agricoltura, che in tesi generale non basta a giustificare siffatta conclusione etnologica. Si potrà difficilmente porre in dubbio la storica connessione dell'agricoltura indo-germanica con quella delle schiatte cinese, aramea e egizia; nondimeno queste schiatte sono o straniere agli Indo-germani, o furono da essi distaccate in un tempo, in cui certo non si coltivava ancora la terra.
Le razze quanto più avanzate in civiltà, tanto più facilmente cambiavano nelle età antiche, come cambiano ai tempi nostri, gli strumenti rurali e i metodi di coltura: e se gli annali della Cina fanno risalire i principii dell'agricoltura cinese al regno di un certo dato re ed in un dato anno, in cui s'introdussero cinque specie di grano, questa narrazione indica per lo meno in generale le condizioni della più antica epoca della cultura.
Il trovare comuni presso popoli diversi le pratiche agrarie, l'alfabeto, l'uso dei carri da guerra, la porpora e le altre suppellettili ed ornamenti, ci può fare piuttosto argomentare antichi rapporti di commercio, che originaria unità di schiatta.
Ma quanto ai Greci ed agli Italici, date le relazioni relativamente abbastanza note di queste due nazioni tra loro, è affatto inammissibile l'opinione, che l'agricoltura, le monete ed i caratteri siano stati introdotti in Italia soltanto dagli Elleni. Ma d'altra parte la comunanza di tutti i più antichi termini relativi all'agricoltura prova l'intima connessione delle due civiltà: ager, ἀγρός; aro, aratrum, ἀρόω, ἄροτρον; ligo, presso λακαίνω; hortus, χόρτος; hordeum, χριϑή: milium, μελίνη: rapa, ῥαφανίς: malva, μαλάχη: vinum, οἴνος. E così pure la stretta relazione tra l'agricoltura greca e la latina si riscontra nella forma dell'aratro, che appare ugualmente raffigurato nei monumenti attici antichi e nei romani; nella scelta dei più antichi cereali – miglio, orzo, spelta; nel modo di mietere colla roncola, nell'uso di far calpestare i covoni dal bestiame sul battuto dell'aia per trebbiare le spighe; finalmente nel modo di preparare il grano: puls πόλτος, pinso πτίσσω, mola μύλη, poichè la coltura è di origine più recente, e di fatti nel rituale romano si fa sempre menzione della pasta o della farinata e mai del pane.
Che anche la coltura della vite in Italia rimonti oltre la più antica immigrazione greca lo prova la denominazione di «paese del vino» (Оἰνωτρία), che sembra risalire sino ai primi Greci che approdarono in Italia. Il passaggio dalla vita pastorale all'agricola, o per meglio dire la fusione dell'agricoltura colla più antica economia pastorizia, deve quindi essersi verificata dopo che gli Indiani si separarono dal grembo materno delle nazioni, ma prima che gli Elleni e gli Italici rinunziassero alla loro antica comunione. Del resto pare che, quando cominciò la coltivazione delle terre, gli Elleni e gli Italici non fossero uniti fra di loro soltanto, ma formassero tutto un popolo con gli altri membri della grande famiglia, tanto è vero che i più importanti vocaboli di coltura sono estranei ai membri asiatici delle famiglie dei popoli indo-germanici, ma sono comuni ai Romani ed ai Greci colle razze tedesche, slave, lituane e persino colle celtiche[5].
La separazione del comune patrimonio originario da ciò che ciascuna nazione si è in seguito acquistata in proprio, è ben lungi dall'essere compiuta e condotta a termine in tutta la varietà delle sue fasi e graduazioni. L'investigazione delle lingue sotto questo rapporto è appena incominciata, ed anche la storiografia trae sempre la materia delle sue narrazioni intorno agli antichi tempi assai più volentieri dalla sorda pietra della tradizione invece che dalla ricca miniera delle lingue. Per ora conviene quindi accontentarsi d'indicare la differenza che passa tra la cultura della famiglia indo-germanica nella sua più antica comunanza e la cultura di quell'epoca in cui i Greco-italici convivevano ancora inseparati. Senza ulteriori ricerche filologiche e materiali non si potranno sceverare, se pur mai sarà possibile di giungere a tanto, i risultati della coltura conseguiti in comune dalla famiglia indo-germanica in Europa, e a cui rimasero estranei gli Indo-germani dell'Asia, dai risultati a cui pervennero isolati gruppi degli Indo-germani europei, come la famiglia greco-italica, e la tedescoslava, ciascuna nel suo sviluppo particolare.
Non vi ha dubbio però che l'agricoltura non sia divenuta per la nazione greco-italica, come divenne per tutte le altre, il germe e il perno della vita sociale e della vita privata, e che come tale sia rimasta nella coscienza del popolo.
La casa e lo stabile focolare, che l'agricoltura si prepara invece della leggera capanna e dell'instabile fuoco del pastore, sono rappresentati nella sfera spirituale e idealizzati nella dea Vesta ('Εστία), quasi la sola, che non essendo indo-germanica, è nondimeno originariamente comune ad ambedue le nazioni.
Una delle più antiche favole italiche attribuisce al re Italo, oppure Vitalo o Vitulo, come devono averlo pronunziato gli Italici, il trapasso del popolo dalla vita pastorale all'agricola e vi connette giudiziosamente l'originaria legislazione italica. Questa non è se non un'altra variante dello stesso concetto della favola sannitica, che indica il toro aratore come il condottiero delle primitive colonie, e la più antica nomenclatura latina, che chiama il popolo coi nomi di mietitori (Siculi o Sicani) o agricoltori (Opsci). Si deve attribuire all'elemento antitradizionale che si è introdotto nella cosidetta leggenda sulle origini romane, se vediamo in essa sorgere un popolo di pastori e di cacciatori, che fonda città: la tradizione e la fede, le leggi e i costumi si collegano presso gli Italici come presso gli Elleni generalmente all'agricoltura[6].
Come l'agricoltura così anche il sistema della divisione e della limitazione del suolo è ordinato in egual modo presso entrambi i popoli, poichè la coltivazione del terreno non è possibile immaginarla senza una misurazione, per quanto rozza, di esso.
Il Vorsus osco ed umbro, da cento piedi quadrati, corrisponde perfettamente al pletro greco. Il principio delle limitazioni è il medesimo. L'agrimensore si orienta con uno dei punti cardinali e tira quindi dapprima due linee dal nord al sud e dall'est all'ovest, nella cui intersecazione (templum, τέμευος da τέμνω) egli si colloca: poi a certe distanze fissa delle linee parallele alle linee principali d'intersecazione, e così ottiene una serie di campi rettangolari, i cui angoli sono segnati da pali confinari (termini, nelle iscrizioni siciliane τέρμονες, comunemente ὄροι). Questo modo di fissare i confini, che è anche etrusco, ma che non possiamo credere d'origine etrusca, lo riscontriamo non solo presso i Romani, gli Umbri, i Sanniti, ma anche in antichissimi documenti degli Eracleoti tarantini; ed è tanto poco verosimile che questi l'abbiano preso dagli Italici, quanto gli Italici dai Tarantini; e però devesi ritenere come un antico patrimonio comune alle due razze. Esclusivamente e caratteristicamente romano è l'ostinato perfezionamento del principio della quadratura secondo il quale là, dove un fiume o il mare facevano confine naturale, non se ne teneva conto, ma lo si includeva col suolo diviso in proprietà entro un piano quadrato.
E la stretta affinità dei Greci cogli Italici si rivela incontestabile non solo nell'agricoltura, ma negli altri rami dell'umana operosità. La casa greca, come la descrive Omero, è poco diversa da quella che si è conservata costantemente in Italia: la parte principale e in origine anche l'intero spazio abitabile della casa latina è l'atrio, cioè la stanza oscura coll'altare domestico, il letto matrimoniale, il desco e il focolare; e null'altro è il Megaron d'Omero col suo altare domestico, col suo focolare e col fuligginoso suo soffitto.
Ma non si può dire altrettanto della costruzione navale. Il battello a remi è un antico patrimonio comune degli Indo-germani; il progresso delle navi a vela non può con qualche fondamento attribuirsi ai tempi greco-italici, non riscontrandosi nessun termine tecnico marittimo che non sia comune agli idiomi Indo-germanici e possa dirsi speciale ai Greci ed agli Italici.
In contraccambio Aristotele paragona l'antichissimo costume italico delle mense comuni dei contadini, la cui origine daterebbe secondo la mitologia dall'introduzione dell'agricoltura, colle Sissizie cretesi: e anche in ciò si riscontra il costume dei più antichi romani con quello dei Cretesi e Laconi, che prendevano i cibi sedendo e non sdraiati, come si usò più tardi presso entrambi. E se a tutti i popoli è comune l'accensione del fuoco mediante lo sfregamento di due pezzi di legno diversi, non a caso tra i Greci e gli Italici soltanto, si riscontra identica la definizione del legno sfregatore (τρύπανον, terebra) e della tavoletta accenditrice (στόρευς, tabula, certo da tendere τετάμαι).
Così è pure identico il vestito d'entrambi i popoli: la tunica corrisponde perfettamente al chiton e la toga altro non è che un più largo himation; e persino nelle armi, così soggette a cambiamenti, si riscontra per lo meno comune il nome delle due armi principali per l'assalto: il giavellotto e l'arco che nei Romani si esprimeva chiaramente nella definizione più antica dei militi – pilumni arquites – nome non certo appropriato al modo di combattere a corpo a corpo.
Così pure presso i Greci e gli Italici e nella lingua e nei costumi, tutto ciò che riguarda le basi materiali dell'umana esistenza risale agli stessi elementi; i più antichi problemi, che la terra propone agli uomini, erano già stati risolti in comune dai due popoli, quando essi formavano ancora una stessa nazione.