30. Risultato generale.
Abbiamo seguito il mutamento delle condizioni esterne di Roma e delineato lo aspetto del mondo romano-ellenico in generale dalla battaglia di Pidna sino all'epoca dei Gracchi, dal Tago e dal Bagrada sino al Nilo e all'Eufrate. Era un grande e difficile problema per Roma il governo di questo mondo romano-ellenico; esso non fu interamente trascurato, ma non fu completamente risolto.
Che fosse da rifiutarsi l'idea dei tempi di Catone, che lo stato si limitasse al possesso dell'Italia e dominasse al di fuori solo col sistema delle clientele, fu ben compreso dagli uomini di stato delle successive generazioni e fu riconosciuta la necessità di sostituire a questo governo dei clienti un governo diretto di Roma che difendesse le libertà comunali. Ma invece di effettuare questo nuovo ordinamento con fermezza, con rapidità e uniformemente, alcune singole provincie furono governate direttamente come vollero l'occasione, il capriccio, il guadagno e il caso; la maggior parte dei paesi clienti invece rimasero nell'insopportabile incertezza del presente, e come fece specialmente la Sicilia, si sottrassero del tutto all'influenza di Roma.
Ma anche il governo si andava ogni giorno più corrompendo in un fiacco e gretto egoismo. Si pensava solo a governare giorno per giorno e a sbrigare appena sufficientemente i soli affari del momento. Si usava rigore contro i deboli, basti a provarlo il fatto che avendo la città di Milasa, nella Caria, mandato al console Pubblio Crasso nel 623 = 131 per la costruzione d'un ariete una trave diversa da quella da lui chiesta, il capo della città venne frustato, e Crasso non era un uomo cattivo, ma un magistrato rigidamente onesto. Invece si difettava di rigore dove era necessario, come ad esempio contro i confinanti barbari e contro i pirati. Il governo centrale, rinunciando ad ogni sopraintendenza e ad ogni ispezione negli affari delle provincie, abbandonava interamente ad ogni governatore non solo gli interessi dei sudditi ma anche quelli dello stato.
Gli avvenimenti della Spagna per quanto insignificanti, sotto questo aspetto, sono molto istruttivi. Qui, dove il governo meno che nelle altre provincie poteva accontentarsi della parte di spettatore, non solo i governatori romani calpestarono il diritto delle genti, e con una fellonia senza esempio prendendosi impudentemente gioco delle capitolazioni e dei trattati, massacrando gente dipendente e assassinando generali nemici, trascinarono nel fango l'onore romano, ma vi si fecero anche guerre e si conclusero trattati di pace contro il divieto del senato romano, e da avvenimenti di poca importanza, come dalla disobbedienza dei Numantini, nacque per lo stato una fatale catastrofe, effetto di una singolare combinazione di perversità e di infamia. E ciò avvenne senza che a Roma si decretasse neppure una severa punizione.
A conferire le più importanti cariche e a decidere delle più importanti questioni politiche concorrevano non solo le simpatie e le rivalità dei diversi partiti del senato, ma l'oro dei principi stranieri che aveva già trovato il modo di giungere fino ai senatori romani. Quale primo a tentare di corrompere il senato romano viene indicato Timarco, ambasciatore di Antioco Epifane, re di Siria (590 = 164); e dopo poco i doni dei re stranieri ai più influenti senatori divennero una cosa così comune, che destò meraviglia che Scipione Emiliano facesse riporre nella cassa di guerra i doni che il re di Siria gli aveva mandato mentre egli si trovava nel campo sotto le mura di Numanzia.
Si era del tutto obliata l'antica massima che unico premio al comando fosse il comando stesso e che il comando fosse un dovere ed un onere non altrimenti che un diritto e un vantaggio. Così nacque il nuovo sistema di amministrazione dello stato, che non guardava le gravezze fiscali dei cittadini e sfruttava invece la sudditanza come utile possedimento della repubblica, in parte per la repubblica stessa, in parte abbandonandola allo sfruttamento dei cittadini; non solo fu lasciato con malvagia condiscendenza un vasto campo all'inesorabile sete d'oro del commerciante romano nell'amministrazione provinciale, ma per lui si tolsero di mezzo persino cogli eserciti dello stato le odiose rivali nel commercio, e le città più sontuose degli stati limitrofi furono sacrificate non ad una barbara avidità di dominio, ma alla più sciagurata barbarie della speculazione.
Così sorse il nuovo ordinamento o meglio disordine militare, col quale lo stato, il quale infine si appoggiava tutto sulla preponderanza militare, si scalzò da sè stesso la propria base. Si lasciò decadere la flotta, e le forze di terra precipitarono in un incredibile disordine. La custodia dei confini asiatici e africani fu imposta ai rispettivi sudditi abitanti, e agli obblighi da cui i Romani non potevano esimersi, come la difesa dei confini italici, macedoni e spagnoli, si adempiva nel modo più meschino. Le migliori classi dei cittadini si tenevano sempre più lontane dall'esercito, cosicchè vi era grave difficoltà per trovare il necessario numero di ufficiali agli eserciti di Spagna.
L'antipatia crescente soprattutto per il servizio militare in Spagna e le parzialità dimostrate dai magistrati nella leva, furono cagione che dal 602 = 152 si abbandonasse l'uso antico di lasciare al libero giudizio degli ufficiali la scelta del necessario contingente preso fra gli uomini atti alle armi, adottando invece il sistema di affidarlo alla sorte; il che nè giovò allo spirito militare, nè alla forza delle singole divisioni.
Invece di far uso della severità, i magistrati estesero la funesta adulazione verso il popolo anche a questo ramo: se un console seguendo il proprio dovere, ordinava per il servizio della Spagna severe leve militari, i tribuni, usando del diritto accordato dalle leggi, lo facevano arrestare (603-616 = 151-138), e abbiamo già osservato come la richiesta di Scipione, che gli fosse permessa la leva per la guerra numantina, fu dal senato assolutamente respinta.
E già gli eserciti romani accampati sotto le mura di Cartagine e di Numanzia ricordano gli eserciti siriaci, nei quali il numero dei panettieri, dei cucinieri, dei comici e simili persone che non combattono, oltrepassava quattro volte quello dei così detti soldati; già i generali romani di poco la cedono ai loro colleghi cartaginesi nell'arte di rendere indisciplinato l'esercito e le guerre tanto in Africa come in Spagna, in Macedonia come in Asia, si cominciano regolarmente con sconfitte; già passa sotto silenzio l'assassinio di Gneo Ottavio; già l'omicidio proditorio di Viriate è un capo d'opera della diplomazia romana e l'espugnazione di Numanzia una prodezza.
Quanto fosse già scemato il concetto dell'onore comune e individuale presso i Romani lo definì con forza epigrammatica la statua di Mancino nudato e legato, ch'egli stesso, fiero del suo patriottico sacrificio, si fece erigere in Roma.
Ovunque si volga lo sguardo si scorge rapidamente avviata alla decadenza la forza interna di Roma e il suo potere all'estero. In questi tempi di tregua il territorio acquistato con lotte gigantesche non aumenta, anzi non si conserva nemmeno. L'impero del mondo, difficile ad ottenersi, è ancor più difficile a conservare; raggiunta la prima mèta, il senato romano venne meno dinanzi alla seconda.
Muro di cinta………………….metri 2 = 6½ piedi
Corridoio (strada scoperta)…… » 1.9 = 6 »
Muro anteriore delle casematte. » 1 = 3¼ »
Sale delle casematte………….. » 4.2 = 14 »
Muro posteriore delle casematte » 1 = 3¼ »
Totale profondità mura . metri 10.1 = 33 piedi
o come cita Diodoro (pag. 582), 22 braccia (1 braccio = 1½ piede), mentre Livio (in Oros., 4,22) e Appiano (Pun., 95), i quali pare abbiano avuto sott'occhio un altro passo di Polibio meno esatto, calcolano a 30 piedi la profondità delle mura. Le triplici mura d'Appiano sulle quali fin qui, secondo Floro, 1, 31, s'era propagata una falsa idea, consistono nel muro esterno e nel muro interno delle casematte. È evidente ad ognuno che questa coincidenza non è accidentale e che noi abbiamo in realtà sott'occhio il famoso muro di Cartagine. Le obiezioni del Davis (Carthage and her remains, pag. 370 seg.) provano solo che contro gli essenziali risultati del Beulè anche con la migliore volontà poco vi è da fare.
Si deve solo ritenere che gli antichi autori non riferiscono generalmente le indicazioni di cui si tratta, alle mura della rocca, ma alle mura della città dalla parte di terra, di cui le mura della parte meridionale della collina della rocca erano una parte integrante (Oros., 4 22). Con ciò si accorda il fatto che gli scavi sulla collina della rocca, verso levante, settentrione e occidente, non hanno mostrata traccia alcuna di fortificazione, mentre invece dal lato di mezzodì hanno mostrato appunto quei grandiosi resti di mura. Non v'è alcun motivo per considerare i medesimi come i resti di una particolare fortificazione della rocca diversa dalle mura della città; ulteriori scavi in una corrispondente profondità – il fondamento delle mura della città scoperto alle falde della Birsa sono situate a 56 piedi sotto l'odierno suolo – metteranno in luce probabilmente lungo tutta la parte di terra uguali o almeno simili fondamenta quand'anche verosimilmente, dove il murato sobborgo di Magalia si appoggiava alle mura principali, la fortificazione sia stata dall'origine più debole o presto trascurata. Quanto fosse lungo il muro per intiero non si può dire con precisione, però lo si ritiene già di un ragguardevole sviluppo in lunghezza, poichè vi si trovavano le stalle per 300 elefanti ed anche i magazzini pel loro foraggio e forse ancora altri spazi e sono da calcolarsi anche le porte. È facile a comprendersi che la città interna, nelle cui mura era compresa la Birsa, massimamente in antitesi al sobborgo Magalia murato separatamente, venisse qualche volta chiamata essa stessa Birsa. (App., Pun., 117; Nepote in Servio, Aen., I, 368).