28. Della marcia su Roma.
Raccolse i suoi soldati – sei legioni, circa 350.000 uomini in tutto – e spiegò loro il messaggio ricevuto da Roma, aggiungendo che il nuovo comandante in capo non avrebbe di certo condotto nell'Asia minore quell'esercito, ma altre truppe recentemente raccolte.
Gli ufficiali superiori, sempre più cittadini che militari, si trassero tutti in disparte ad eccezione di uno solo che seguì il supremo duce alla volta della capitale; ma i soldati che, ammaestrati dal passato, speravano di fare una guerra senza disagi e di raccogliere in Asia un immenso bottino, andarono in furore; in un baleno i due tribuni venuti da Roma furono fatti a brani e si gridò d'ogni parte al generale che li conducesse su Roma.
Il console si avviò tosto, e tratto a sè durante la marcia il suo collega di eguali principî, poco curandosi degli ambasciatori che venivano da Roma per distoglierlo da tale impresa, giunse con rapide marce sotto le mura della capitale.
Inaspettatamente si videro le colonne dell'esercito di Silla schierarsi sul ponte del Tevere e alla porta Collina ed Esquilina, e poi due legioni, precedute dalle loro insegne, passare la pacifica cerchia, da cui la legge aveva bandito la guerra.
Quante malaugurate contese, quante gravi ostilità erano state composte entro queste mura senza che un esercito romano avesse turbato la santa pace della città! Ora questa era violata solo per la meschina questione se il supremo comando della guerra d'Oriente si dovesse affidare ad uno piuttosto che ad un altro console.
Le legioni irrompenti si avanzarono sino alla sommità dell'Esquilino, quando i proiettili e i sassi incominciavano a piovere dai tetti rendendo malsicuro il cammino ai soldati che cominciavano a ritirarsi. Allora Silla sollevò in aria la fiammeggiante face minacciando di mettere ogni cosa a ferro e fuoco, e le legioni si aprirono un varco fin sulla piazza del monte Esquilino (presso Santa Maria Maggiore).
Qui le attendeva la milizia raccolta in tutta fretta da Mario e da Sulpicio, che, superiore di numero, le respinse. Ma venne in loro soccorso la truppa che stava schierata alle porte, e un'altra divisione di soldati di Silla si disponeva a girare sulla via della Suburra quando i difensori furono costretti a ritirarsi.
Mario tentò di piantarsi un'altra volta presso il tempio della Terra dove l'Esquilino comincia a chinarsi verso il foro; supplicò il senato e i cavalieri e tutta la borghesia di lanciarsi contro le legioni. Ma egli stesso le aveva create trasformando i cittadini in lanzichenecchi; la sua stessa opera si rivolgeva ora contro di lui; essi non obbedivano più al governo ma al loro generale.
Persino gli schiavi, colla promessa della libertà, invitati ad armarsi, non si mossero; solo tre si presentarono all'appello. Ai governanti non rimaneva altro che di fuggire immediatamente dalle porte non ancora occupate.
Dopo poche ore Silla era assoluto padrone di Roma, e quella notte i fuochi di bivacco delle legioni arsero sul foro massimo della capitale.