16. Livio Druso.
La tempesta doveva inevitabilmente scatenarsi sui tribunali dei cavalieri.
Quelli del partito governativo, che avevano ancora il buon senso di credere che il governare non solo concedesse diritti, ma imponesse anche doveri, gli uomini nobilmente orgogliosi dovevano rivoltarsi contro una tale oppressiva e disonorante tutela politica, che rendeva del tutto impossibile un onesto governo.
La scandalosa condanna pronunciata contro Rutilio Rufo parve un incitamento ad iniziare la lotta, e Marco Livio Druso, tribuno del popolo nel 663 = 91, la considerava specialmente diretta contro di lui. Figlio dell'uomo dello stesso nome, il quale trent'anni prima, rovesciato dapprima Caio Gracco, si era poi come ufficiale procurato un nome col soggiogare gli Scordisci, Druso aveva come suo padre sentimenti strettamente conservatori, già manifestati durante la sollevazione di Saturnino.
Egli apparteneva alla più elevata nobiltà e possedeva una sostanza colossale; anche nel modo di pensare era un vero aristocratico, un uomo energicamente fiero, sdegnoso di fregiarsi con gli emblemi delle sue cariche, ma che sul letto di morte fu udito dire che un altro eguale a lui non sarebbe così presto venuto; un uomo che per tutta la sua vita fu schiavo della massima: noblesse oblige. D'indole seria ed appassionata si era allontanato dalla plebe rifatta vana e venale; degno di fede e costumatissimo, egli era più stimato che amato dalla bassa gente, cui era sempre aperta la sua casa e la sua borsa, e nonostante la sua giovinezza, tanto in senato come nel foro, tenuto in considerazione per il suo severo carattere.
E non era il solo. Marco Scauro difendendosi nel processo per concussioni ebbe il coraggio d'invitare pubblicamente Druso a dar mano alla riforma dell'ordinamento dei giurati. Egli e il celebre oratore Lucio Crasso erano nel senato i più zelanti propugnatori e forse i collaboratori delle sue proposte.
Ma tutta l'aristocrazia dominante non pensava come Druso, Scauro e Crasso. Nel senato non mancavano aperti difensori del partito dei capitalisti, fra cui si distinguevano il console Lucio Mario Filippo, ora caldo ed astuto propugnatore della causa del ceto dei cavalieri, come lo era stato prima della causa della democrazia, e il baldanzoso Quinto Cepione, che anzi abbracciò questo partito a cagione della sua personale inimicizia con Druso e Scauro.
Ma più pericolosa di questi franchi avversari era la vile ed inetta turba aristocratica, che veramente avrebbe desiderato di esser sola a spogliare le province, ma che alla fine si accontentava di dividere il bottino coi cavalieri, e, invece di esporsi ai pericoli della lotta cogli arroganti capitalisti, trovava meno caro e più comodo il comperare da loro l'impunità, colle melate parole e gli inchini, e, occorrendo, con una somma rotonda. Il solo successo avrebbe potuto mostrare se fosse possibile guadagnarsi questa moltitudine, senza la quale non si poteva raggiungere la meta.