9. Guerre dei Celti.
I Romani, sentendosi in quel momento troppo deboli per tentare le sorti d'una battaglia, conclusero un armistizio e per guadagnare tempo lasciarono che i Celti mandassero a Roma ambasciatori, i quali osarono chiedere in senato la cessione di Rimini.
Sembravano ritornati i tempi del primo Brenno. Ma un avvenimento inaspettato mise fine alla guerra prima ancora che fosse seriamente incominciata. I Boi, malcontenti degli importuni alleati e temendo fors'anche per il proprio paese, vennero in contestazioni coi transalpini; i due eserciti dei Celti scesero a battaglia campale; e, dopo che i capi dei Boi furono trucidati dai loro propri connazionali, i transalpini ritornarono ai loro paesi.
I Boi erano così in balìa dei Romani e non dipendeva che da questi lo scacciarli, come avevano fatto dei Senoni, ed inoltrarsi per lo meno sino al Po; ma fu invece concessa loro la pace mediante la rinunzia ad alcune parti del loro territorio (518=236).
Ciò sarà avvenuto probabilmente perché si riteneva prossima l'apertura delle ostilità con Cartagine. Ma cessato questo timore coll'acquisto della Sardegna, la sana politica del governo romano richiedeva che si eseguisse al più presto possibile la totale occupazione del paese che stendevasi sino alle Alpi; e con ciò si giustifica il continuo timore che avevano i Celti d'una simile invasione. Ma i Romani non si affrettarono e furono invece i Celti che iniziarono la guerra, sia che le distribuzioni di terre, che i Romani andavano facendo sulla costa orientale, li inquietassero (522=232), benchè non si riferissero direttamente ad essi, sia che riconoscessero inevitabile la guerra con Roma per il possesso della pianura padana, sia finalmente – e questo pare il più verosimile – che l'impaziente popolo celtico fosse ormai stanco del lungo oziare ed agognasse a nuove spedizioni. Meno i Cenomani che parteggiavano pei Veneti e si dichiararono in favore dei Romani, tutti i Celti italici presero parte alla guerra, e ad essi si associarono in gran numero i Celti della valle superiore del Rodano o piuttosto i loro disertori condotti da Concolitano e da Aneresto[9]. I duci dei Celti avanzarono verso l'Appennino con 50.000 combattenti a piedi e 20.000 a cavallo o su carri (529=225).
I Romani non avevano preveduto un attacco da quella parte e non avevano pensato che i Celti, trascurando le fortezze romane poste sulla costa orientale e l'appoggio dei propri connazionali, avrebbero osato marciare direttamente sulla capitale.
Non molto tempo prima un'altra orda di Celti aveva nello stesso modo inondata la Grecia.
Il pericolo era grave e sembrava ancora più grave di quello che realmente fosse.
La credenza che questa volta la rovina di Roma fosse inevitabile e che il territorio romano dovesse, per destino ineluttabile, divenire preda dei Galli, era nella stessa capitale così diffusa tra le masse, che lo stesso governo non stimò contrario alla sua dignità scongiurare il grossolano pregiudizio del volgo con un pregiudizio ancora più grossolano, sotterrando vivi nel foro romano un uomo ed una donna gallici quasi per dar compimento ai decreti del destino.
In pari tempo si presero però efficaci misure. Dei due eserciti consolari, ciascuno dei quali contava 25.000 fanti e 1100 cavalieri, l'uno era stanziato in Sardegna sotto gli ordini di Caio Attilio Regolo, l'altro a Rimini sotto Lucio Emilio Papo. Entrambi ricevettero l'ordine di recarsi con tutta la possibile celerità in Etruria, come quella che era la più minacciata.
I Celti erano stati già costretti a lasciare nel loro paese un presidio per difenderlo contro i Cenomani ed i Veneti alleati dei Romani; ora gli Umbri, scesi in massa dai loro monti furono spinti nelle pianure dei Boi per devastarne le campagne e recare al nemico ogni possibile danno. L'esercito degli Etruschi e dei Sabini ebbe il compito di occupare l'Appennino e possibilmente sbarrarlo finchè fossero potute arrivare le truppe regolari.
A Roma si formò una riserva di 50.000 uomini; in tutta l'Italia, che questa volta riconobbe in Roma il suo vero baluardo, si arruolarono tutti gli uomini atti alle armi e si raccolsero provvigioni da bocca e da guerra.
Ma tutto ciò richiedeva del tempo; i Romani si erano lasciati sorprendere, e per lo meno l'Etruria non era più possibile salvarla.
I Celti trovarono l'Appennino fiaccamente difeso e saccheggiarono a loro agio le ricche pianure etrusche, che da lungo tempo non erano visitate da nemici. Si erano già avanzati sino a Chiusi, distante solo tre tappe da Roma, quando l'esercito di Rimini, comandato dal console Papo, apparve ai loro fianchi, mentre la milizia etrusca, che, varcato l'Appennino si era raccolta alle spalle dei Galli, seguiva la loro avanzata.
Una sera, dopo che i due eserciti si erano già accampati ed avevano accesi i fuochi del bivacco, la fanteria celtica levò tutto ad un tratto di nuovo gli alloggiamenti battendo in ritirata sulla via di Fiesole; la cavalleria occupò per tutta la notte gli avamposti e la mattina seguente seguì il grosso dell'esercito.
Allorquando la milizia etrusca, che aveva posto il suo campo in prossimità del nemico, s'accorse della sua ritirata, credendo che l'orda cominciasse a sbandarsi si affrettò ad inseguirla.
I Galli avevano calcolato appunto su questo errore; la loro fanteria, rifattasi dalla stanchezza, stava in buon ordine attendendo in opportuno campo di battaglia la milizia romana, che arrivava stanca e disordinata per la marcia forzata. Seguì un accanito combattimento, in cui si contarono 6000 morti; il resto delle milizie che a stento aveva potuto ritirarsi su di una collina, sarebbe esso pure stato distrutto se l'esercito consolare non fosse giunto ancora in tempo a liberarlo, ciò che decise i Galli a battere in ritirata.
L'ingegnoso loro piano d'impedire l'unione dei due eserciti romani distruggendo isolatamente il più debole non era riuscito che per metà; per il momento sembrò loro savio partito quello di porre prima di tutto in salvo il ragguardevole bottino. Allo scopo di rendere meno faticosa la marcia attraverso il paese di Chiusi, ove si trovavano, s'erano portati alla pianura verso il mare e procedevano lungo la costa, allorchè tutt'ad un tratto si videro sbarrata la via. Erano le legioni sarde sbarcate presso Pisa, che, arrivate troppo tardi per chiudere il passo dell'Appennino, avevano preso la via del litorale andando incontro ai Galli. Presso Talamone (alla foce dell'Ombrone) si incontrarono col nemico.
Mentre la cavalleria romana avanzava in colonne serrate sulla grande strada, il console Caio Attilio Regolo alla testa della cavalleria, con una marcia obliqua, cercò di portarsi sul fianco dei Galli e di dare sollecito avviso del suo arrivo all'altro esercito capitanato da Papo. S'impegnò un violento combattimento di cavalleria, in cui, insieme con altri valorosi Romani, cadde anche Regolo, ma il console non aveva sacrificata inutilmente la sua vita; lo scopo ch'egli si era prefisso era raggiunto. Papo s'accorse della battaglia e cercò di effettuare il congiungimento: riordinò in tutta fretta le sue truppe, e le legioni romane piombarono ai due lati dell'esercito dei Galli.
Coraggiosamente questi si disposero a sostenere la duplice lotta; i transalpini e gli Insubri contro le truppe di Papo, i Taurisci alpigiani ed i Boi contro le legioni sarde; la cavalleria continuava a combattere separatamente sui fianchi. In quanto al numero le forze non erano disuguali e la disperata posizione dei Galli li costringeva alla più pertinace difesa.
Ma i transalpini, abituati a combattere soltanto a corpo a corpo, non resistevano ai proiettili degli arcieri romani; la giornata fu decisa da un assalto di fianco della vittoriosa cavalleria romana.
I cavalieri celtici presero la fuga; non così potè fare la fanteria incastrata tra il mare ed i tre eserciti romani. Diecimila Celti ed il re Concolitano furono fatti prigionieri, i morti che coprivano il campo di battaglia sommavano a 40.000; Aneresto ed il suo seguito, stando al costume celtico, si erano dati volontariamente la morte.