2. Spedizione contro i Parti.
Gabinio, portata a fine la spedizione d'Egitto, intendeva di approfittare dell'occasione tuttora favorevole per riprendere l'interrotta guerra contro i Parti, quando arrivò in Siria Marco Crasso, il quale insieme al comando assunse anche i progetti del suo predecessore. Pieno di vaghe speranze considerò leggermente le difficoltà della marcia, e più ancora le forze degli eserciti nemici; egli non solo parlò con sicurezza del soggiogamento dei Parti, ma nella sua mente aveva già conquistato i regni della Battriana e delle Indie.
Ma il nuovo Alessandro non aveva nessuna premura. Prima di mettere in opera piani tanto grandiosi, egli seppe trovar tempo per dar corso ad affari secondari molto estesi e molto lucrosi. Il tempio di Derceto in Jerapoli Bambice, quello di Jehova in Gerusalemme ed altri santuari della provincia siriaca, per ordine di Crasso furono spogliati dei loro tesori e tutti i sudditi furono invitati a somministrare contingenti o, in sostituzione, a concorrere con somme in danaro.
Le operazioni militari al principio dell'estate si limitarono ad una estesa ricognizione della Mesopotamia: si passò l'Eufrate, fu battuto il satrapo partico presso Ichnae (sul Belik al nord di Bakkah) e furono occupate le vicine città, fra cui l'importante Niceforia (Bakkah), e, lasciati in esse dei presidii, si ritornò nella Siria.
Sino allora si era stati in dubbio, se convenisse più marciare nella Partia prendendo la via più lunga verso l'Armenia, o battendo la via diritta pel deserto della Mesopotamia. La prima, attraversando paesi montuosi soggetti ad alleati fedeli, presentava maggior sicurezza; il re Artavasde venne in persona nel quartier generale romano per appoggiare questo piano.
Ma la ricognizione fatta decise per la marcia attraverso la Mesopotamia. Le molte e fiorenti città greche e semi-greche nelle province sulle sponde dell'Eufrate e del Tigri, e anzitutto la città mondiale di Seleucia, erano assolutamente avverse alla dominazione partica; come prima i cittadini di Carre, così ora tutti i luoghi greci occupati dai Romani manifestarono con i fatti quanto fossero pronti a scuotere il molesto dominio straniero e ad accogliere i Romani come loro liberatori, quasi come loro compatriotti.
Il principe arabo Abgaro, che dominava il deserto intorno ad Edessa e Carre, e perciò la solita via dall'Eufrate al Tigri, era andato al campo dei Romani per assicurarli personalmente della sua devozione. I Parti non erano assolutamente preparati. Così i Romani passarono l'Eufrate (presso Biradiik) nel 701 = 53.
Due erano qui le vie che conducevano al Tigri: o far marciare l'esercito a seconda del corso dell'Eufrate sino all'altezza di Seleucia, dove il Tigri è distante dall'Eufrate solo poche leghe, o prendere, subito dopo passato questo fiume, la via più breve attraverso il gran deserto della Mesopotamia.
La prima via conduceva direttamente alla capitale partica, Ctesifonte, posta sulla sinistra del Tigri di fronte a Seleucia che sorgeva sulla riva destra; nel consiglio di guerra romano si sollevarono parecchie voci autorevoli in favore di questo piano; il questore Caio Cassio richiamò specialmente l'attenzione sulle difficoltà che presentava la marcia attraverso il deserto e sui gravi rapporti che pervenivano dai presidî romani posti sulla sinistra dell'Eufrate intorno ai preparativi di guerra dei Parti.
Ma in contraddizione a questo il principe arabo Abgaro riferiva che i Parti si disponevano ad abbandonare le loro province occidentali, che essi avevano già incassato i loro tesori e si erano posti in cammino per mettersi in salvo presso gli Ircani e presso gli Sciti; che basterebbe una marcia forzata sulla via più breve per raggiungerli e per distruggere con molta probabilità almeno la retroguardia del grande esercito capitanato da Sillace e dal visir, e che si guadagnerebbe l'immenso bottino.
Questi rapporti dei beduini amici decisero la scelta del percorso; l'esercito romano, composto di sette legioni, di 4000 cavalieri e 4030 frombolieri e sagittari, si scostò dall'Eufrate e volse i suoi passi per le inospitali pianure della Mesopotamia settentrionale. In nessun luogo si scorgevano nemici; la fame, la sete e l'immenso deserto di sabbia sembravano posti a guardia delle porte d'Oriente.
Finalmente, dopo molti giorni di una marcia disastrosa, vicino al primo fiume detto Balisso (Belik), che l'esercito doveva passare, si scorsero i primi cavalieri nemici. Abgaro con i suoi arabi fu inviato ad esplorare; le schiere dei cavalieri si spiegarono oltre il fiume e scomparvero inseguite da Abgaro e dai suoi.
Si attendeva con impazienza il suo ritorno e con lui esatte informazioni. Il generale sperava infine di raggiungere il nemico che si andava continuamente ritirando; il giovane e valoroso suo figlio Publio Crasso, che aveva combattuto colla massima distinzione sotto Cesare nella Gallia, e che da questi, messo alla testa d'una schiera di cavalleria celtica, era stato inviato a prender parte alla guerra che si combatteva contro i Parti, ardeva dal desiderio impetuoso della pugna.
Vedendo che non arrivava nessuna notizia, si prese la risoluzione di andare avanti abbandonandosi alla buona ventura: fu dato il segnale della partenza, si passò il Balisso, e dopo una breve insufficiente sosta a mezzodì, l'esercito continuò senza posa la sua marcia a passo accelerato. Ad un tratto e tutto all'intorno si udì il suono dei timballi dei Parti; dovunque si volgesse lo sguardo si vedevano sventolare i loro serici vessilli trapunti d'oro, splendere i loro elmi e le loro corazze ai raggi del cocente sole meridiano, e vicino al visir stava il principe Abgaro co' suoi Beduini.