16. Critica alla tattica dei Romani.
Fermiamoci ancora per poco a considerare la guerra che allargò i confini romani oltre la cerchia del mare che bagna la penisola.
Essa è una delle più lunghe e più difficili che i Romani abbiano sostenuto. I soldati che combatterono la battaglia decisiva, per la massima parte non erano ancor nati quando si cominciarono le prime battaglie.
Ciò non pertanto, e malgrado gli avvenimenti incomparabilmente grandiosi che la segnalarono, non ve n'è alcun'altra che i Romani abbiano condotto così male e con tanta incertezza, sia nei rispetti militari, sia in quelli politici.
E non poteva essere altrimenti; poichè questa guerra segna appunto i limiti della politica italica del piede di casa, divenuta oramai insufficiente, e della grande politica, di cui ancora non si erano trovate le linee fondamentali.
Il senato romano e gli ordinamenti militari dei Romani erano preparati in modo insuperabile per la politica puramente italica.
Le guerre, fino allora sostenute, erano sempre state guerre continentali, e la base d'operazioni era sempre stata prima la capitale posta nel centro della penisola, e poi la rete delle fortificazioni romane.
I piani di guerra erano perciò appoggiati più sulla tattica che sulla strategia; le marce e le combinazioni strategiche tenevano il secondo posto, le battaglie il primo; la guerra di fortezza era ai suoi primordi; qualche rara volta appena, e per incidenza, si parlava del mare e di guerra navale.
È facile comprendere, specialmente se si ricordi come nelle battaglie di quei tempi, predominando l'arma bianca, l'urto a corpo a corpo e la virtù della mano fossero decisivi, che un'assemblea di consiglieri poteva essere in grado di dirigere queste operazioni e colui che era capo della cittadinanza riusciva atto a comandare l'esercito. A un tratto tutto mutò. Il campo della guerra si allargò a perdita di vista sino ad ignoti paesi d'altre parti del mondo e a mari lontani; d'ogni parte, da ogni punto del quadrante poteva balzar fuori il nemico, in ogni porto poteva prender terra.
I Romani furono obbligati per la prima volta a cimentarsi nell'assedio delle fortezze e principalmente di quelle poste sul mare, contro le quali i più famosi tattici della Grecia s'erano rotto il capo.
Ormai l'esercito e la milizia cittadina erano insufficienti. Si trattava di creare una flotta, e, ciò che era più difficile, di sapersene servire, si trattava di fissare i veri punti di attacco e di difesa, di saper unire e dirigere le masse, di saper calcolare il tempo e la distanza per le spedizioni e di combinare l'una cosa coll'altra, senza di che un nemico, anche di gran lunga inferiore nella tattica, poteva vincere facilmente un avversario più numeroso e più forte.
Ora chi può meravigliarsi se a regger tanta e sì ponderosa novità di cose non si mostrassero atti nè il senato nè i capi annuali della città?
Quando la guerra si iniziava non si sapeva mai quali sorprese riservasse; solo nel corso della lotta si rivelavano l'una dopo l'altra tutte le deficienze degli ordinamenti con i quali fino allora Roma si era retta: mancanza di una adeguata forza marittima, difetto d'un fermo indirizzo militare, incapacità dei generali, assoluta nullità dei comandanti marittimi.
A queste deficenze in parte si supplì coll'energia, in parte vi rimediò la sorte; ed è così che fu possibile ai Romani di vincere la principale difficoltà: la mancanza di una flotta.
Ma anche questa mirabile creazione altro non fu che un grandioso ripiego, e tale rimase in tutti i tempi. Si formò un naviglio a servizio di Roma, ma non si riuscì mai a farne una vera forza nazionale ed esso non ebbe mai di romano che il nome; e Roma trattò sempre la sua flotta da matrigna.
Il servizio navale fu sempre tenuto in poco conto nei confronti dell'onorata milizia legionaria; gli ufficiali di marina erano in gran parte Greco-italici, gli equipaggi si componevano di sudditi o anche di schiavi e di ciurmaglia.
Il contadino italico fu e rimase nemico dell'acqua; tra le tre cose, che Catone si pentiva di aver fatto nella sua vita, una fu quella di essere andato in barca quando avrebbe potuto andare a piedi. Ma ciò era in parte da attribuirsi alla circostanza che le navi erano galere a remi e che il servizio del remo non è possibile nobilitarlo; si sarebbero però potute istituire speciali legioni di marineria, e promuovere così l'istituzione d'una classe d'ufficiali per la flotta.
Approfittando dello spontaneo concorso dei cittadini si sarebbe dovuta costituire gradatamente una forza marittima, non solo rispettabile per il numero, ma anche per la pratica navale, che pure era stata felicemente iniziata colle imprese dei corsari italici durante la lunga guerra; ma il governo nulla fece di tutto questo. Ciò non pertanto la marineria romana, nella sua rozza grandiosità, è la più geniale creazione dovuta a questa guerra, e fu essa che diede al principio ed alla fine il tracollo in favore di Roma.
Molto più difficili a vincersi erano quei difetti insiti nella costituzione stessa.
Che il senato, secondo l'alternarsi dei partiti che in esso dominavano, passasse da un sistema di guerra ad un altro, e quindi commettesse incredibili errori, come ad esempio lo sgombero di Clupea, e il mal vezzo di richiamar a mezza impresa la flotta come più volte occorse; che il generale durante il tempo della sua carica assediasse città siciliane, e che il suo successore, invece di insistere nell'impresa, preferisse andare a taglieggiare le coste africane, o dare una battaglia navale; che d'ordinario tutti gli anni mutassero, secondo gli ordini consueti, i comandanti supremi – tutte queste mende non si potevano togliere senza sollevare problemi costituzionali, la cui soluzione era più difficile assai che non improvvisare una flotta; ma ciò non toglieva che l'ordinamento politico non rispondesse più alle nuove esigenze d'una simile guerra.
Prima d'ogni altra cosa occorre dire che nessuno era ancora esperto in questo nuovo modo di guerreggiare, nè il senato, nè i generali. La spedizione di Regolo ci prova come i Romani fossero persuasi che tutto dipendesse dalla superiorità della tattica. Non è facile trovare un generale che la fortuna abbia favorito con tanti accidenti propizi, quanto Regolo; esso si trovava nel 498=256 appunto nelle condizioni in cui cinquant'anni più tardi si trovò Scipione, colla sola differenza che non aveva di fronte nè un Annibale, nè un esercito di esperti veterani.
Ma appena si potè aver la prova della superiorità tattica dell'esercito romano, il senato richiamò metà delle milizie, contando ciecamente sul valore di quelli che restavano; il generale, fiducioso a sua volta, rimase dove si trovava, per farsi battere strategicamente, e quando accettava la battaglia, ovunque gli veniva offerta, finiva col farsi battere anche tatticamente.
Questa era cosa tanto più sorprendente, in quanto che Regolo, secondo la scuola romana d'allora, doveva dirsi un capitano valente e sperimentato.
Il modo, diremo così, patriarcale, con cui si conduceva la guerra, e che aveva valso la conquista dell'Etruria e del Sannio, fu appunto la causa principale della sconfitta nella pianura di Tunisi.
Il principio fin'allora giusto ed applicabile, che ogni cittadino sia atto a comandare un esercito, divenne a un tratto erroneo; col nuovo sistema di guerreggiare non si potevano elevare al supremo comando dell'esercito se non uomini che avessero lungamente militato e che avessero acquistato la facoltà d'una rapida sintesi ed un colpo d'occhio sicuro, e queste doti certamente non si trovavano in ogni console.
Feconda di risultati molto peggiori era poi la massima di riguardare la carica di comandante della flotta come dipendente dal supremo comando dell'esercito, cosicchè ogni console veniva legalmente a considerarsi atto non solo a rivestire la carica di generale ma anche quella di navarca.
Le più terribili sconfitte toccate ai Romani in questa guerra, non si debbono attribuire alle fortune di mare e meno ancora ai Cartaginesi, ma all'arrogante imbecillità de' loro ammiragli-cittadini.
Roma vinse finalmente; ma l'essersi accontentata d'un guadagno molto inferiore a quello che dal principio aveva domandato, anzi offerto, e l'energica opposizione, che incontrò in Roma il trattato di pace, provano chiaramente che la vittoria e la pace erano cose ottenute per metà e con poca consistenza, e se Roma era riuscita vittoriosa dalla lotta, essa lo doveva certo al favore degli dei ed all'energia de' suoi cittadini, ma più ancora agli errori dei suoi nemici, assai più gravi di quelli in cui pur essa era caduta nel condurre questa guerra.