11. Resistenza passiva del senato.
Non andò molto che Cesare sotto questo rapporto ebbe a fare delle singolari esperienze col senato. Egli aveva incominciato la lotta col proposito di liberare lo sbigottito senato dai suoi oppressori. Questo era avvenuto; egli desiderava perciò che il senato approvasse quanto aveva fatto e gli desse i pieni poteri per la continuazione della guerra.
A questo scopo i tribuni del popolo del suo partito convocarono il senato (1° aprile) quando Cesare comparve sotto le mura della capitale (fine di marzo). L'adunanza era abbastanza numerosa, ma vi mancavano persino i più notevoli fra i senatori rimasti in Italia, e fra questi l'antico capo della servile maggioranza Marco Cicerone, ed il suocero di Cesare, Lucio Pisone; e, quel che era peggio, anche i comparsi non erano affatto disposti ad accettare le proposte di Cesare.
Quand'egli parlò di pieni poteri per la continuazione della guerra, uno dei due soli consoli presenti, Servio Sulpicio Rufo, uomo timidissimo, che non desiderava altro che di morire tranquillo nel proprio letto, disse che Cesare si renderebbe benemerito della patria rinunciando a portare le guerra in Grecia ed in Spagna. Quando poi Cesare pregò il senato almeno di trasmettere a Pompeo le sue proposte di pace, il senato veramente non si rifiutò, ma le minaccie degli emigrati contro quelli che si erano tenuti neutrali, avevano incusso tanto spavento, che non si trovò nessuno che volesse incaricarsi di questa missione di pace.
L'avversione dell'aristocrazia di prestarsi alla costruzione del trono monarchico e quella stessa indifferenza dell'alta magistratura collegiale, colla quale poco prima Cesare aveva stornata la legale nomina di Pompeo a supremo duce della guerra civile, fecero fallire la stessa domanda fatta a suo favore. Altri impedimenti vi si associarono.
Per dare qualche regolarità alla sua posizione, Cesare desiderava di essere nominato dittatore; ciò non venne fatto, perchè tale carica non poteva essere costituzionalmente coperta se non da uno dei consoli, e perchè Cesare non era riuscito nel tentativo di corrompere col denaro il console Lentulo, benchè in vista della sua dissestata posizione si credesse di riuscirvi.
Il tribuno del popolo Lucio Metello frapponeva inoltre il suo veto a tuttociò che proponeva il proconsole, e quando le genti di Cesare si fecero avanti per vuotare la cassa dello stato, egli fe' mostra di coprirla col suo corpo. Cesare in questo caso non potè fare a meno di far rimuovere l'inviolabile magistrato con tutta la delicatezza possibile; egli del resto si mantenne fermo nella risoluzione presa di astenersi da qualsiasi atto di violenza.
Dichiarò al senato, come appunto qualche tempo prima aveva fatto il partito della costituzione, che egli aveva esternato il desiderio di mettere ordine colle vie legali e con l'aiuto della suprema autorità alle cose pubbliche; ma che siccome questa vi si rifiutava, così lo avrebbe fatto anche senza il suo concorso.
Senza più curarsi del senato, e mettendo da parte le formalità imposte dalla ragion di stato, egli incaricò il pretore Marco Emilio Lepido della provvisoria amministrazione della capitale nella qualità di prefetto urbano e diede le necessarie disposizioni pel governo delle province da lui dipendenti e per la continuazione della guerra.
Persino in mezzo allo strepito delle armi della grande lotta e al dolce suono delle splendide promesse profuse da Cesare, le masse della capitale si sentirono scosse quando nella libera Roma esse videro per la prima volta il monarca farla da monarca, e dai suoi soldati forzato l'uscio del pubblico tesoro. Ma non erano più i tempi in cui le espressioni e lo spirito delle masse decidevano dell'andamento degli avvenimenti; ora decidevano le legioni, e poca o nessuna attenzione si faceva ad alcuni sentimenti più o meno dolorosi.