19.Sviluppo della popolazione d'Italia.
Il risultato generale di questo sistema d'economia appare manifesta nelle mutate condizioni della popolazione.
È ben vero che la situazione dei distretti italici era molto ineguale, ed in parte la si poteva dire persino buona.
I piccoli poderi stabiliti in gran numero nella regione tra gli Appennini ed il Po al tempo della sua colonizzazione, non scomparvero così presto. Polibio, il quale visitò il paese non molto dopo la fine di questo periodo, celebra la sua numerosa, bella, forte popolazione; mediante una equa legislazione sui cereali sarebbe stato possibile ridurre la vallata del Po, invece della Sicilia, a granaio della capitale.
Il Piceno ed il cosidetto Ager Gallicus avevano ricevuto nello stesso periodo un gran numero di contadini possidenti in seguito alle distribuzioni di terreni demaniali con la legge flaminia del 522=232; ma furono ridotti a mal partito durante la guerra annibalica.
Nell'Etruria, ed anche nell'Umbria, le condizioni interne dei comuni soggetti non erano favorevoli alla prosperità d'una classe di agricoltori liberi. Era migliore la condizione del Lazio – a cui non si potevano togliere interamente i vantaggi che offriva il mercato della capitale, ed a cui, in generale, non recò danno la guerra annibalica, come era anche migliore quella dei Marsi e dei Sabelli, chiusi tra le loro montagne.
L'Italia meridionale, poi, era stata terribilmente devastata dalla guerra annibalica, la quale, oltre una grande quantità di piccoli paesi, aveva ridotto in rovina le due più grandi città, Capua e Taranto, entrambi in grado di mettere in campo eserciti di 30.000 uomini.
Il Sannio s'era rimesso dalle aspre guerre del quinto secolo: dopo il censimento del 529=225 era in grado di fornire tanti uomini capaci di portare le armi quanti ne potevano somministrare tutte insieme le città latine, ed era in quel tempo, dopo l'agro romano, probabilmente la più florida regione della penisola. Ma la guerra annibalica aveva una seconda volta devastato il paese e le distribuzioni di terreni fatte ai soldati dell'esercito di Scipione, benchè considerevoli, non avevano coperto probabilmente le perdite.
In quella guerra furono trattate ancora peggio dagli amici che dai nemici le regioni della Campania e dell'Apulia fino allora assai popolate. Nell'ultima, furono successivamente fatte delle assegnazioni di terreno; ma le colonie qui istituite non prosperarono.
La bella pianura della Campania rimase più popolata; ma il territorio di Capua e degli altri comuni disciolti durante la guerra annibalica, divenne proprietà dello stato, e gli occupanti non ne divennero già proprietari, ma piccoli fittavoli temporanei.
Quanto poi al vasto territorio della Lucania e del Bruzio la cui popolazione, già molto scarsa prima della guerra annibalica, fu colpita da tutte le calamità della guerra stessa e delle rappresaglie che ne sono la conseguenza, si deve dire che Roma non si dette pensiero di farvi rivivere l'agricoltura – e nessuna delle colonie qui fondate crebbe realmente a vera prosperità se si eccettui forse Valentia.
Malgrado tutta la diversità delle condizioni politiche ed economiche dei vari distretti, e malgrado lo stato relativamente fiorente di alcuni di essi, il peggioramento è, in generale, evidentissimo, e confermato dalle più irrefragabili testimonianze sulle condizioni dell'Italia in generale.
Catone e Polibio concordano nel dire che l'Italia alla fine del sesto secolo, era assai meno popolata che non alla fine del quinto e che non era assolutamente più capace di mettere in piedi masse d'eserciti come nella prima guerra punica.
La crescente difficoltà della leva, la necessità di facilitare le qualifiche pel servizio nelle legioni, i lamenti dei federati sull'elevatezza dei contingenti da essi dovuti, servono a confermare questi indizi; e, quanto ai cittadini romani, sono le cifre che parlano. Essi contavano nell'anno 502=252, subito dopo il passaggio di Regolo in Africa, 298.000 uomini atti a portare la armi; trent'anni più tardi, poco prima della guerra annibalica (534=220), l'esercito cittadino era ridotto a 270.000 uomini, quindi a un decimo di meno; altri vent'anni dopo, poco prima della fine di questa guerra (550=204), a 214.000, quindi ad un quarto meno; e una generazione più tardi – durante il quale periodo non si ebbero perdite straordinarie, ma si ebbe anzi, in virtù della fondazione di grandi colonie cittadine nella pianura dell'Italia settentrionale, uno straordinario aumento – l'esercito cittadino risalì appena alla cifra che contava al principio di questo periodo.
Se noi avessimo simili cifre per la popolazione italica in generale, esse presenterebbero, senza dubbio, una diminuzione ancora più notevole.
La decadenza della vigorìa del popolo non si può provare con documenti; è, però, provato da economisti che la carne ed il latte cessarono a poco a poco di essere il nutrimento del popolo. E mentre la classe dei liberi diminuiva, aumentava quella degli schiavi.
Nell'Apulia, nella Lucania e nel Bruzio l'economia pastorizia deve, già ai tempi di Catone, essere prevalente sull'agricoltura; i semi-selvaggi schiavi-pastori erano in quei paesi i veri padroni.
L'Apulia era dai medesimi resa così malsicura che fu necessario inviarvi una forte guarnigione; nel 569=185 vi fu scoperta una congiura di schiavi, ordita su vastissima scala e connessa anche coi preparativi dei baccanali, e 7000 uomini furono condannati a pena capitale.
Anche nell'Etruria fu necessaria l'opera delle truppe romane contro una banda di schiavi (558=196), e persino nel Lazio avvenne che alcune città, come Sezze e Palestrina corsero pericolo di essere assalite da bande di servi fuggitivi (556=198). La nazione andava scemando a vista d'occhio, e la comunità dei liberi cittadini tendeva a divenire un corpo di padroni e di schiavi; e sebbene le due lunghe guerre con Cartagine sieno state la causa principale della decimazione e della rovina dei cittadini romani e dei loro alleati, furono però, senza dubbio, i capitalisti romani quelli che contribuirono, non meno di Amilcare e d'Annibale, a indebolire e a ridurre la popolazione italica.
Nessuno può dire se il governo avesse potuto rimediarvi; ma è un fatto che fa terrore e vergogna quello che nei circoli dell'aristocrazia romana, i quali avevano pure in gran parte ancora giustezza d'idee ed energia, non si comprendesse la gravità della situazione, nè vi fosse il presentimento del pericolo sovrastante.
Essendosi un giorno trovata nel foro romano, in una gran calca, una dama romana dell'alta nobiltà, sorella d'uno dei molti ammiragli della borghesia che nella prima guerra punica avevano mandato a male le flotte della repubblica, essa disse ad alta voce, che sarebbe stato il caso di porre di nuovo suo fratello alla testa d'una flotta, così, con un altro salasso alla borghesia, si sarebbe diradata la calca nel foro (508=246). È ben vero che quelli che così pensavano e così si esprimevano non erano in gran numero; ma queste oltraggiose parole erano però la mordace espressione della criminosa indifferenza colla quale tutta l'alta e doviziosa società guardava i comuni cittadini ed i contadini.
Non si voleva propriamente la loro rovina, ma si lasciava che questa avvenisse; e quindi, con rapidi passi, si sparse la desolazione sul fiorente paese italico, nel quale un gran numero di uomini, liberi e felici, godeva ancora d'una modesta e meritata prosperità.
Prezzo di acquisto del fondo 1000 sesterzi
Prezzo degli schiavi ripartito per un iugero 1143 »
Viti e pali 2000 »
Interessi perduti nei primi due anni 497 »
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Totale 4640 sesterzi
pari a L. 1245
Egli calcola il prodotto minimo di 60 anfore in 900 sesterzi (L. 240) ciascuna, ciò che rappresenterebbe una rendita del 17 per cento. Ma questa è in parte illusoria, poichè, anche astrazion fatta delle annate cattive, nel preventivo delle spese non sono calcolate quelle della vendemmia e quelle per mantenere in buon essere le viti, i pali e gli schiavi. Lo stesso economo rurale calcola al massimo a 100 sesterzi per iugero la rendita lorda dei prati, dei pascoli e dei boschi, e quella dei campi arativi piuttosto meno che più; come di fatto anche la rendita dei 25 moggi romani di frumento per ogni iugero, calcolato in ragione del prezzo quotato nella capitale, di un denaro al moggio, non dà più di 100 sesterzi (L. 29,66) di rendita lorda e sul luogo della produzione il prezzo ne deve essere stato ancora più basso. Varrone (3, 2) calcola una buona rendita lorda ordinaria di una grande tenuta in ragione di 150 sesterzi (L. 44,49) al iugero. Su di ciò non ci sono pervenute le corrispondenti notizie per le spese. È ovvia l'osservazione, che l'amministrazione di queste tenute era di molto minor dispendio che non quella delle vigne. Tutte queste indicazioni sono poi riferibili ad un secolo e più dopo la morte di Catone. Da lui non abbiamo se non quella generale che l'allevamento del bestiame è più proficuo che non l'agricoltura (Cicerone, de off. 2, 25, 29; Colum. 6 praef 4, confr. 2, 16, 2; Plin. H. n. 18, 5, 30; Plut. Cat. 21); ciò che, come è naturale non vuole significare che convenga dappertutto ridurre a terreno da pascolo i campi arativi, ma che il capitale impiegato per la pastorizia in terreni pascolivi sui monti ed altri luoghi convenienti, rende maggiori interessi quando lo si confronti con quello impiegato in fondi arativi. A questo proposito si deve anche considerare che il difetto di attività e di intelligenza nel proprietario del fondo si fa sentire meno pericolosamente dove si tratta di terreni da pascolo che di oliveti e di vigne, la coltivazione dei quali è tanto più difficile. Parlando di poderi arativi, Catone ne classifica la rendita in linea discendente nel seguente modo: 1° la vigna; 2° l'orto; 3° il saliceto, che per la crescente coltivazione della vite dava una ragguardevole rendita; 4° l'oliveto; 5° i prati per fieno; 6° il campo arativo; 7° la macchia; 8° il bosco ceduo; 9° il querceto pel foraggio del bestiame – tutti questi nove elementi sono riprodotti nel piano d'economia delle tenute modello di Catone. Una prova della maggior rendita netta, che offre la coltivazione della vite in confronto della coltivazione del grano, la vediamo nel fatto, che in forza della sentenza arbitrale tra la città di Genova ed i villaggi suoi tributari nel 637=117, la detta città riceve a titolo di pareggio la sesta parte del vino e la ventesima del frumento.
«Nessuno (degli aspiranti all'appalto presenti alla licitazione) potrà ritirarsi allo scopo di ottenere un maggior prezzo per l'appalto del raccolto e della molitura delle olive, eccettuato il caso in cui (il coaspirante) nominasse immediatamente (l'altro aspirante) come suo socio. Quando sembri che ciò non sia stato osservato dovranno, sulla richiesta del proprietario del fondo, o su quella dell'intendente da lui nominato, tutti i soci (di quell'associazione colla quale fu fatto l'accordo) giurare (di non aver cooperato a togliere di mezzo questa concorrenza). Se non prestano il giuramento non si paga il prezzo stipulato». È superfluo osservare che per imprenditore s'intende una società e non già un singolo capitalista.