39. Religione e codici.
Che nella religione e nell'amministrazione della giustizia non si potesse pensare ad una perfetta uniformità, è inutile dirlo; però, non ostante tutta la tolleranza per le relazioni locali e per gli statuti municipali, il nuovo stato abbisognava di un culto comune, corrispondente alla nazionalità italo-ellenica, e di un codice generale, superiore agli statuti municipali. Esso ne abbisognava, tanto più che l'uno e l'altro esistevano già di fatto.
Nel campo religioso, già da secoli si cercava di fondere insieme il culto italico con l'ellenico, sia con l'aggregazione esterna, sia con l'interno accomodamento delle idee intorno alle divinità, e per la comoda mancanza di forme delle divinità italiche non si erano nemmeno incontrate grandi difficoltà a cambiare Giove in Zeus, Venere in Afrodite, ed a ridurre così ogni essenziale concetto della religione latina nel suo modello ellenico.
La religione italo-ellenica era già preparata nei suoi tratti fondamentali; quanto si avesse la coscienza di aver appunto in ciò oltrepassata la nazionalità specificatamente romana e di avere progredito verso una quasi nazionalità italo-ellenica, lo prova ad esempio, la distinzione fatta da Varrone nella già accennata teologia degli dei «comuni», cioè di quelli riconosciuti tanto dai romani quanto dai greci, da quelli speciali del comune romano.
Negli affari giudiziari, nel campo cioè del diritto penale e politico, in cui il governo ha l'azione più immediata ed in cui un'assennata legislazione basta al bisogno legale, non era difficile, tenendosi sulla via dell'operosità legislativa, di raggiungere quel grado di materiale uniformità, che anche in questo ramo era assolutamente necessaria per l'unità dello stato.
Nel campo del diritto civile, per contro, in cui l'iniziativa spetta al commercio, ed al legislatore soltanto la formula, il diritto civile unitario dello stato, che il legislatore non avrebbe certamente potuto creare, si era già da lungo tempo sviluppato in modo naturale per mezzo del commercio.
Il diritto municipale romano, veramente, si fondava ancora legalmente sulla formula del codice provinciale latino contenuto nelle dodici tavole. Le leggi posteriori contenevano, in particolare, parecchi miglioramenti conformi al tempo, tra cui facilmente riconosciamo il più importante: l'abolizione della vecchia goffa istruzione della causa con formule fisse delle parti, e la sostituzione con un'istruzione scritta (formula), compilata dal giudice dirigente il processo, unico giurato; ma, in sostanza, la legislazione popolare aveva soltanto accumulato su quell'antica base un immenso ammasso di leggi speciali, per la maggior parte da lungo tempo antiquate e dimenticate, paragonabili alle leggi statutarie Inglesi.
I tentativi di un formulario e di una sistemazione scientifica avevano rese accessibili e chiare le tortuose vie dell'antico diritto civile; ma nessun Blackstone romano poteva rimediare al difetto fondamentale che una serie di atti municipali, compilati quattro secoli addietro, colle sue aggiunte, tanto diffuse quanto confuse, dovesse ora servire come diritto di un grande stato.
Più radicalmente si aiutò da se stessa la società. Da lungo tempo l'animato commercio fra i Romani aveva sviluppato in Roma un diritto privato internazionale (ius gentium); cioè un complesso di leggi, principalmente sulle relazioni commerciali, secondo le quali i giudici romani pronunciavano le sentenze quando un caso non poteva essere deciso nè secondo il proprio codice provinciale, nè secondo quello di un altro paese qualunque, ed essi si vedevano obbligati, mettendo da parte le specialità giuridiche romane, elleniche, fenice ed altre, di ricorrere alle opinioni giuridiche generali, formanti la base di tutto il commercio.
Qui incominciava la nuova giurisprudenza. Prima di tutto essa sostituiva, come una norma per le relazioni legali dei cittadini romani tra di loro, all'antico diritto urbano divenuto praticamente inservibile, uno nuovo, basato materialmente su un compromesso fra il diritto nazionale delle Dodici Tavole e quello internazionale, o il così detto diritto delle genti.
A quello, sebbene, naturalmente, con modificazioni conformi al tempo, ci si atteneva fermamente per i matrimoni, gli affari di famiglia e le successioni; in tutte le decisioni invece, che si riferivano alle sostanze, quindi per la proprietà e per i contratti, serviva di norma il diritto internazionale, anzi, a questo riguardo, furono tolte parecchie importanti disposizioni perfino dal diritto provinciale locale, come ad esempio le leggi sull'usura e l'istituzione delle ipoteche.
Se ad un tratto o a poco a poco, se da uno o più autori, da chi, quando e come sia stata data vita a questa radicale riforma, sono questioni alle quali non sapremmo dare una conveniente risposta; noi sappiamo solo che questa riforma ebbe, com'era naturale, la sua prima origine dal tribunale urbano, che essa anzitutto si formulò nelle istruzioni sulle più importanti massime di giurisprudenza (edictum annuum o perpetuum praetoris urbani de iuris dictione) da osservare dalle parti nell'entrante anno giudiziario, emesse annualmente dal nuovo pretore urbano, e che, sebbene sieno stati fatti parecchi passi preparatori in tempi anteriori, trovò certo il suo compimento soltanto in quest'epoca.
La nuova massima giuridica era teoricamente astratta, inquantochè l'opinione giuridica romana si era per essa spogliata di tutta la sua specialità nazionale per quanto si era accorta d'averla; ma era al tempo stesso praticamente positiva, mentre non scompariva nel fosco crepuscolo dell'equità universale, e nel puro nulla del così detto diritto naturale, ma era applicata da apposite autorità per appositi casi concreti, secondo stabilite norme, e non solo era suscettibile di una formula legale, ma l'aveva anzi già essenzialmente ottenuta nell'editto urbano.
Questa massima corrispondeva inoltre materialmente ai bisogni del tempo, in quanto essa offriva le più comode formule volute dall'incremento dei rapporti commerciali per il processo, per l'acquisto della proprietà e per la conclusione dei contratti. Essa era finalmente, in sostanza, già divenuta diritto sussidiario universale in tutta l'estensione dello stato romano, e mentre fra membri della stessa giurisdizione si lasciavano sussistere i diversi statuti locali per quei rapporti giuridici che non erano propriamente commerciali, come per il commercio locale, per contro il traffico delle sostanze tra sudditi di diversa giurisdizione si regolava generalmente secondo l'editto urbano tanto in Italia quanto nelle province, sebbene in questi casi esso non fosse legalmente applicabile.
Il diritto dell'editto urbano aveva quindi in quel tempo essenzialmente la stessa posizione che ha il diritto romano nello sviluppo dei nostri stati: anche questo è al tempo stesso astratto e positivo, per quanto simili contratti si possono riunire; anche questo si raccomandò per le sue forme di relazioni assai malleabili, se si confrontano con l'antico diritto di massima, ed entrò quale diritto sussidiario universale accanto agli statuti locali.
Lo sviluppo giuridico romano ebbe, a confronto del nostro, un essenziale vantaggio, quello che la legislazione priva di carattere nazionale non fu introdotta come presso di noi precocemente o artificialmente, ma a tempo debito e naturalmente.