11. Legislazione.
Quanto alla legislazione, il monarca democratico si attenne alla antichissima massima della ragione di stato romano, che soltanto l'assemblea popolare, in comunione col re che la convocava potesse regolare organicamente la repubblica e sanzionò regolarmente con un plebiscito le sue costitutive disposizioni.
È certo che ai cosiddetti comizi di questa epoca non si poteva infondere di nuovo la libera vigoria e la imponente autorità morale che il sì o il no di quell'antico popolo armato aveva portato in sè; la cooperazione della borghesia nella legislazione, che nell'antica costituzione era stata molto limitata, ma che era stata però reale e vitale, era nella nuova, sotto l'aspetto pratico, un'ombra chimerica.
Non occorrevano perciò particolari misure di restrizioni contro i comizi; un'esperienza di molti anni aveva dimostrato che con questo sovrano di nome si accordava facilmente qualsiasi forma di governo, tanto l'oligarchica che la monarchica. Questi comizi cesariani erano un elemento importante nel sistema cesariano, ed indirettamente di pratica importanza solo in quanto essi servivano a mantenere in principio la sovranità del popolo e a protestare energicamente contro il sultanismo.
È poi non solo chiaro, ma anche decisamente provato, che fu nuovamente adottata da Cesare stesso, e non soltanto dai suoi successori, anche l'altra massima dell'antichissima ragione di stato, che ciò che ordina il supremo o meglio l'unico magistrato ha assoluta validità fintanto che egli rimane in carica, e che la legislazione spetta solo al re, in comunione con la borghesia, ma il decreto regio ha forza di legge per lo meno fino a che il suo autore non cessa dalle sue funzioni.
Se il re democratico accordava così al popolo almeno una parte formale della sovranità, non era per contro assolutamente sua intenzione di dividere il potere col governo fino allora esistito, cioè col collegio senatorio. Il senato di Cesare – assolutamente diverso da quello posteriore di Augusto – non doveva essere altro che un supremo consiglio di stato, del quale Cesare si serviva per predisporre le leggi e per emanare col suo mezzo, o almeno sotto il suo nome, le disposizioni amministrative di maggiore importanza; poichè accadeva anche, senza dubbio, che si emanassero dei senatoconsulti di cui nessuno dei senatori segnati come presenti alla relativa redazione avesse conoscenza.
Non vi era alcuna essenziale difficoltà di forma per ricondurre il senato alla sua originaria condizione consultiva, dalla quale si era scostato di fatto più che di diritto; ma era necessario per contro di garentirsi contro una resistenza passiva, poichè il senato romano era il focolare dell'opposizione contro Cesare, come era stato l'areopago attico contro Pericle.
Principalmente per questo motivo, il numero dei senatori che fino allora era normalmente di seicento e che in seguito alle ultime crisi era assai fortemente ridotto, fu con un'aggiunta straordinaria portato fino a novecento, e al tempo stesso, per mantenere questo collegio almeno a quest'altezza, si elevarono da venti a quaranta i questori da nominarsi ogni anno, cioè i membri ogni anno entranti a far parte del senato[9].
Il completamento straordinario del senato fu opera esclusiva del monarca. Per il completamento ordinario egli si assicurò una durevole influenza, obbligando per legge[10] i collegi elettorali a dare i loro voti ai primi venti postulanti per la questura, muniti dal monarca di lettere di raccomandazione; inoltre dipendeva liberamente dalla corona di concedere le onorificenze annesse alla questura o ad ufficio da essa dipendente, quindi particolarmente il seggio in senato; eccezionalmente anche a persone mancanti dei requisiti voluti.
Le straordinarie elezioni supplementari cadevano, com'era naturale, essenzialmente su aderenti al nuovo ordine di cose e portavano nell'alta corporazione, accanto a personaggi ragguardevoli, anche parecchi plebei e di dubbia fama: ex-senatori cancellati dalla lista per opera dei censori o in seguito ad una sentenza giudiziaria; stranieri di Spagna e di Gallia, obbligati in parte ad imparare la lingua latina in senato; ex sottufficiali che non avevano avuto fino allora nemmeno l'anello da cavaliere; figli di liberti o di tali che esercitavano mestieri non onorati, ed altri simili elementi.
I circoli esclusivi della nobiltà, a cui questa metamorfosi del corpo senatorio, com'era naturale, rincresceva amaramente, vi scorgevano un avvilimento calcolato dell'istituzione stessa del senato. Cesare non era però capace di una tale bassa arte di stato; egli era invece deciso di non lasciarsi dominare dal suo consiglio, com'era convinto della necessità dell'istituzione. Essi avrebbero più giustamente dovuto riconoscere in questo modo d'agire l'intenzione del monarca di togliere al senato il carattere mantenuto fino allora dell'esclusiva rappresentanza della nobiltà oligarchica, e di fare di esso nuovamente ciò che era stato ai tempi dei re: un Consiglio di stato rappresentante tutte le classi dei sudditi coi loro elementi rispettivi più intelligenti, non escluso necessariamente nemmeno l'infimo e lo stesso straniero. Appunto come quegli antichissimi re avevano accolto in senato dei non cittadini, così Cesare ammise nel suo senato i non italici.