4. Annibale padrone dell'alta Italia.
I resti dell'esercito romano del Po ripararono nelle piazze forti di Piacenza e di Cremona, dove, separate completamente da Roma, furono costrette a procacciarsi i viveri per la via del fiume. E poco mancò che il console Tiberio Sempronio, il quale, accompagnato da poca cavalleria, recavasi a Roma per le elezioni, non fosse fatto prigioniero.
Non volendo Annibale porre a repentaglio la salute dei suoi soldati con ulteriori marce nella rigida stagione, si attendò durante l'inverno dove trovavasi, e si accontentò di molestare il nemico attaccandolo nel porto fluviale di Piacenza ed in altre posizioni di poco conto, ben conoscendo che un serio tentativo contro le fortezze non avrebbe avuto nessun successo.
Principale occupazione di Annibale era di organizzare l'insurrezione gallica; si vuole che 60.000 fanti e 4000 cavalieri celti si siano uniti al suo esercito.
Per la campagna dell'anno 537=217 non si fecero a Roma sforzi straordinari; il senato, non ostante la perduta battaglia, non considerava ancora, in nessun modo, seriamente pericolosa la situazione, ed a ragione.
Oltre i presidii delle coste, che furono spediti in Sardegna, in Sicilia e a Taranto, e i rinforzi mandati in Spagna, i due nuovi consoli Gaio Flaminio e Gneo Servilio ottennero appena quel numero di armati che bastasse a completare le quattro legioni; soltanto la cavalleria venne aumentata.
Essi dovevano coprire i confini settentrionali, e presero quindi posizione sulle due strade militari che da Roma conducevano verso settentrione, e di cui l'occidentale metteva allora capo in Arezzo e l'orientale in Rimini; quella fu occupata da Gaio Flaminio, questa da Gneo Servilio.
Essi chiamarono a sè, probabilmente per la via del fiume, i presidii delle fortezze poste sul Po, e attesero il ritorno della migliore stagione per occupare, mantenendosi sulla difensiva, i passi dell'Appennino, per passare poi all'offensiva, scendere nella valle del Po e forse congiungersi presso Piacenza.
Senonchè Annibale non aveva affatto l'intenzione di difendere la valle del Po. Egli conosceva Roma meglio forse che non gli stessi Romani, e sapeva benissimo di essere decisamente più debole di loro e di esserlo malgrado la splendida vittoria riportata sulla Trebbia; egli sapeva pure che la mèta dei suoi pensieri, l'umiliazione di Roma, data la tenace fierezza dei Romani, non si poteva raggiungere nè con lo spavento nè colla sorpresa, ma unicamente col completo soggiogamento della città.
Era notorio quanto la federazione italica, sia per solidità politica, quanto per risorse militari, fosse superiore a lui, che non riceveva dalla patria che incerti e irregolari sussidi, e in Italia non poteva fare assegnamento che sul popolo celtico oscillante e capriccioso; e quanto il fante cartaginese fosse nella tattica inferiore al legionario, malgrado tutte le cure impiegate da Annibale, lo aveva pienamente dimostrato la difesa di Scipione e la brillante ritirata della fanteria dopo la sconfitta toccata sulla Trebbia.
Da questa persuasione nacquero i due pensieri fondamentali che regolarono costantemente il modo di operare di Annibale in Italia: combattere cambiando continuamente il piano d'operazioni, nonchè il teatro della guerra, conducendo questa piuttosto come un avventuriero, e attendere il risultato non dai successi militari, ma dai politici, cioè dalla successiva dissoluzione e del finale scioglimento della federazione italica.
Questo modo di fare la guerra era necessario, perchè la sola cosa che Annibale poteva opporre contro tanti svantaggi, cioè il suo genio militare, acquistava tutta la sua importanza soltanto se egli poteva sviare continuamente i suoi avversari col mezzo di impensate combinazioni; se la guerra sostava, egli era immediatamente perduto.
Questo sistema gli era imposto dalla sana politica, perchè egli, il formidabile vincitore di battaglie, ben comprendeva che vinceva sempre i generali e non la città, e che dopo ogni nuova battaglia i Romani rimanevano superiori ai Cartaginesi come egli rimaneva superiore ai generali romani.
Che Annibale non si sia fatto illusione su questo rapporto, nemmeno quando era al vertice della fortuna, desta maggior meraviglia di quello che possono destare le sue più famose battaglie.
Per questo motivo, e non per le preghiere dei Galli di risparmiare il loro paese, alle quali Annibale non avrebbe dato ascolto, egli abbandonò allora la nuova base di operazioni trasportando il teatro della guerra nell'Italia propriamente detta.
Prima di farlo ordinò che gli venissero presentati tutti i prigionieri. I Romani furono separati dagli altri e incatenati come gli schiavi.
Che Annibale facesse perire tutti i Romani atti alle armi che gli capitavano nelle mani, è senza dubbio una notizia per lo meno molto esagerata. Invece i federati italici furono lasciati liberi senza riscatto, affinchè raccontassero nei loro paesi, che Annibale non faceva la guerra all'Italia ma a Roma, che egli assicurava ad ogni comune italico l'antica indipendenza e gli antichi confini, e che il liberatore seguiva da vicino i liberati come salvatore e vindice.
Passato che fu l'inverno, egli lasciò la valle padana per aprirsi un varco attraverso le difficili gole dell'Appennino.
Gaio Flaminio, alla testa dell'esercito d'Etruria, si teneva tuttora presso Arezzo pronto a portarsi a Lucca appena la stagione lo permettesse, per coprire la valle dell'Arno e occupare i passi dell'Appennino.
Ma Annibale lo prevenne, ed effettuò il passaggio senza gravi difficoltà, tenendosi più che poteva ad occidente, vale a dire più che poteva distante dal nemico; senonchè le terre paludose tra il Serchio e l'Arno erano talmente sommerse per lo scioglimento delle nevi e per le piogge di primavera, che l'esercito dovette marciare quattro giorni nell'acqua non trovando, pel necessario riposo della notte, altro luogo asciutto fuorchè lo spazio che offrivano i mucchi di bagagli e le bestie cadute.
La truppa soffrì moltissimo, particolarmente la fanteria gallica, che seguiva la cartaginese sulla via resa impraticabile; essa mormorava ad alta voce e sarebbe disertata in massa se la cavalleria cartaginese, comandata da Magone, che formava la retroguardia, non glie lo avesse impedito. I cavalli, tra i quali si manifestò una malattia contagiosa nelle unghie, perivano a torme; altre malattie contagiose decimavano gli uomini; Annibale stesso soffrì di oftalmia in modo da perdere un occhio. Ma la mèta era raggiunta.