14. Catone e la minoranza.
Rimaneva una frazione di oppositori, i quali conservavano almeno il loro colore e non si lasciavano nè vincere nè guadagnare. Gli autocrati si erano persuasi che le misure eccezionali, come quelle impiegate contro Catone, avrebbero danneggiato la loro causa anzichè giovarle; e che era un male minore quello di sopportare l'incomoda opposizione repubblicana, di quello di trasformare gli oppositori in martiri della repubblica.
Perciò si permise il ritorno di Catone (fine del 698 = 56) e che d'ora in avanti egli facesse di nuovo nel senato e nel foro, non di rado con pericolo della vita, l'opposizione agli autocrati, la quale, se era onorevole, era purtroppo al tempo stesso ridicola. Si permise che in occasione delle proposte di Trebonio egli spingesse le cose nel foro sino alla zuffa, e che in senato facesse la proposta di arrestare il proconsole Cesare per la sleale condotta verso gli Usipeti ed i Tencteri e di consegnarlo a questi barbari.
Si tollerò che Marco Favonio, il Sancio di Catone, dopo che il senato ebbe presa la decisione di assumere le legioni di Cesare sulla cassa dello stato, si avventasse sulla porta del senato e gridasse in istrada che la patria era in pericolo; si tollerò che egli coi suoi modi scurrili chiamasse un diadema fuori di posto la benda bianca con cui Pompeo si teneva fasciata la sua gamba malata; che il consolare Lentulo Marcellino, mentre lo si applaudiva, gridasse al popolo di servirsi diligentemente di questo diritto d'esprimere la propria opinione finchè era permesso di farlo; che il tribuno del popolo Caio Ateio Capitone dannasse Crasso, alla sua partenza per la Siria, agli spiriti infernali, pubblicamente e con tutte le forme della teologia di quel tempo.
In massima queste non erano che vane dimostrazioni d'una irritata minoranza; il piccolo partito da cui uscivano era però d'importanza, in quanto che forniva alimento e dava il segnale all'opposizione repubblicana che fermentava nel silenzio ed eccitava in parte anche la maggioranza del senato, la quale in sostanza nutriva i medesimi sentimenti contro gli autocrati, a prendere contro di loro delle isolate risoluzioni.
Giacchè anche la maggioranza sentiva il bisogno di sfogare almeno di tanto in tanto, in cose secondarie, il contenuto rancore, scatenandosi contro i servili, a malincuore contro i nemici deboli in odio ai potenti. Quando lo poteva essa dava delle leggere pedate alle creature degli autocrati; così fu negata a Gabinio la chiesta festa di rendimento di grazie (698 = 56); così Pisone venne richiamato dalla provincia; così fu vestito il bruno dal senato quando il tribuno del popolo Caio Catone tenne sospese le elezioni pel 699 = 55 sin che si mantenesse in carica il console Marcellino appartenente al partito della costituzione.
Perciò Cicerone, per quanto si mostrasse umile verso gli autocrati, pubblicò un libello non meno velenoso che scipito contro il suocero di Cesare.
Ma tutte queste ostili velleità della maggioranza del senato e l'oziosa opposizione della minoranza non erano che prove evidenti che come una volta il governo era passato dalla borghesia al senato, ora da questo era passato nelle mani degli autocrati, e che il senato non era ormai più che un consiglio di stato monarchico destinato ad assorbire gli elementi antimonarchici.
I seguaci del rovesciato governo andavano lamentando: «Nessun uomo all'infuori dei tre vale uno zero; i dominatori sono onnipotenti ed è loro cura che nessuno l'ignori; tutto il senato è come trasformato, ubbidisce ai padroni; la nostra generazione non vedrà un miglioramento di cose».
Ormai non si viveva più nella repubblica, ma nella monarchia.