7. Guerra in Spagna.
Nella Spagna, in cui era più potente lo spirito d'Amilcare e d'Annibale, la guerra era più seria.
La lotta proseguiva con singolari vicissitudini come comportavano le condizioni del paese ed i costumi della popolazione.
I contadini ed i pastori che abitavano la bella valle dell'Ebro e la ubertosissima Andalusia, non meno che l'aspro altipiano attraversato da molte selvose montagne che si eleva tra l'una e l'altra, accorrevano altrettanto facilmente alle armi per una leva in massa, quanto difficilmente si lasciavano condurre contro il nemico; chè, anzi, non era nemmeno possibile di tenerli uniti.
Non minori difficoltà si incontravano con gli abitanti delle città per farli agire in comune; però ogni singola città opponeva dai suoi ripari tenace resistenza all'oppressore.
Pare che gli indigeni facessero poca differenza tra Romani e Cartaginesi, e che ai medesimi poco importasse se gli ospiti molesti dimoranti nella valle dell'Ebro o quelli stanziati sulle rive del Guadalquivir possedessero un pezzo più o meno grande della penisola; per cui pochi sono i casi in questa guerra, in cui si riconosca la costanza spagnuola nel pronunciarsi per un partito, se si eccettuino Sagunto, che teneva per i Romani ed Astapa per i Cartaginesi.
Ma non avendo nè i Romani nè gli Africani condotto seco abbastanza milizie, la guerra divenne per gli uni e per gli altri necessariamente una lotta di propaganda, in cui di rado era decisivo il vero attaccamento ad un partito; piuttosto, d'ordinario, il timore, l'oro ed il caso, e, quando sembrava volgere alla fine, si risolveva in una interminabile guerra di fortezza e in una guerriglia di bande, per divampare poi di nuovo da sotto le ceneri.
Gli eserciti andavano soggetti alle stesse vicende delle dune sulle spiagge; là dove ieri era un monte, oggi non se ne trova più alcuna traccia. La prevalenza era in generale dalla parte dei Romani, sia perchè essi, sulle prime, si presentavano in Spagna come liberatori del paese dal governo tirannico dei Cartaginesi, sia per la felice scelta dei loro capitani e per la maggior efficienza delle loro truppe, già sperimentate. Del resto, colle nostre imperfettissime tradizioni, assai guastate particolarmente dalla cronologia, non è possibile dare una soddisfacente relazione d'una guerra condotta in questa maniera.
Gneo e Publio Scipione, governatori dei Romani nella penisola, buoni generali ed eccellenti amministratori entrambi, ma particolarmente Gneo, portarono a fine il loro compito col più brillante successo.
Non solo fu mantenuto il confine dei Pirenei, ed impedito duramente il tentativo fatto dai Cartaginesi di ristabilire l'interrotta comunicazione terrestre fra il loro comandante ed il suo quartier generale; non solo venne trasformata la città di Tarragona, sull'esempio di Cartagena, in una nuova Roma spagnuola con estese fortificazioni ed opere marittime al porto, ma gli eserciti romani combatterono sino dal 532=215 con buoni risultati nell'Andalusia.
Con più splendido successo fu ripresa la campagna l'anno successivo (540=214).
I Romani spinsero le loro armi quasi sino alle colonne d'Ercole, estesero la loro clientela nella Spagna meridionale, e finalmente, con la riconquista e riedificazione di Sagunto, si assicurarono un'importante stazione sulla linea dall'Ebro a Cartagena, pagando al tempo stesso, per quanto era possibile, un antico debito nazionale.
Mentre gli Scipioni stavano quasi per scacciare i Cartaginesi dalla Spagna, procuravano loro, nella stessa Africa occidentale – nelle odierne provincie di Orano e di Algeri – un pericoloso nemico nel possente principe Siface, il quale era entrato in rapporti con Roma verso il 541=213.
Se fosse stato possibile mandare a quest'ultimo un esercito romano, si sarebbero potuti calcolare grandi successi; ma appunto allora non si poteva disporre in Italia nemmeno di un uomo, e l'esercito di Spagna era troppo debole per venir diviso. Ciò non ostante anche le truppe di Siface, addestrate e condotte da ufficiali romani, suscitarono tra i sudditi libici di Cartagine un tale fermento, che Asdrubale Barca, il quale teneva il posto di comandante supremo nella Spagna e nell'Africa, dovette recarsi egli stesso in questa provincia col nerbo delle sue truppe spagnuole.
Di questa guerra libica però poco sappiamo all'infuori della relazione della crudele vendetta che i Cartaginesi, come al solito, presero sugl'insorti, dopo che il rivale di Siface, il re Gala – nell'odierna provincia di Costantina – si dichiarò in favore di Cartagine e dopo che il valoroso suo figlio Massinissa ebbe battuto e costretto Siface alla pace.