11.Dissoluzione della Macedonia.
Il senato decise di non più esporsi al pericolo, cui l'intempestiva benignità di Flaminino aveva esposta Roma. La Macedonia fu annientata.
Nella conferenza tenutasi in Amfipoli, sullo Strimone, i commissari romani ordinarono che quel regno, già così compatto e strettamente monarchico, venisse diviso in quattro confederazioni greche, cioè quella di Amfipoli coi paesi orientali, quella di Tessalonica colla penisola calcidica, quella di Pella sul confine della Tessalia e quella di Pelagonia nell'interno del paese.
Non erano validi i matrimoni contratti tra individui appartenenti a confederazioni diverse, e nessuno poteva avere stabile domicilio in più d'una delle medesime.
Tutti gl'impiegati regi e i loro figli dovettero, pena la vita, abbandonare il paese e recarsi in Italia; i Romani temevano ancora, e con ragione, un risveglio dell'antico legittimismo macedonico.
Il diritto nazionale e la costituzione furono conservati; come era naturale, i magistrati furono nominati per mezzo delle elezioni comunali, e, tanto nei comuni come nelle confederazioni, il potere fu affidato ai notabili.
I dominii regi e le regalie non furono lasciate alle confederazioni e fu loro vietato particolarmente di sfruttare le miniere d'oro e d'argento, ricchezza principale del paese. Più tardi però (596=158) fu permesso riprendere il lavoro nelle miniere d'argento[5]. Fu vietata l'importazione del sale e l'esportazione del legname da costruzione navale. L'imposta fondiaria che sino allora s'era pagata al re, fu soppressa e lasciata libertà alle confederazioni ed ai comuni d'imporre quelle tasse che meglio volessero, coll'obbligo però di versare nelle casse di Roma, ogni anno, la metà della cessata imposta fondiaria, calcolata una volta per sempre nella complessiva somma di cento talenti (L. 637.500)[6].
Il paese fu sempre disarmato; la fortezza di Demetriade fu rasa al suolo; fu conservata soltanto, verso il confine settentrionale, una serie di posti militari contro le incursioni dei barbari. Delle armi consegnate si mandarono a Roma gli scudi di rame; il rimanente fu bruciato.
Lo scopo era raggiunto. La Macedonia non fu sorda altre due volte alla voce di principi dell'antica dinastia prendendo le armi; ma ad ogni modo, d'allora in poi, essa non ebbe più storia.
La stessa sorte toccò all'Illiria. Il regno di Genzio fu diviso in tre piccole repubbliche; e qui ancora i possidenti dovettero pagare la metà dell'imposta fondiaria ai loro nuovi padroni, ad eccezione delle città che avevano tenuto pei Romani e che perciò ne ottennero l'esenzione – eccezione alla quale la Macedonia non aveva alcun titolo per aspirare.
Confiscata la flotta dei pirati illirici, le navi furono donate ai più ragguardevoli comuni greci situati su quella costa. E così fu messo fine, almeno per un lungo tempo, alle continue vessazioni che gli Illirici avevano recato ai loro vicini, particolarmente con la pirateria.
Coti, nella Tracia, difficile a catturarsi, e perciò utile strumento contro Eumene, ottenne perdono e gli fu persino rimandato il figlio, che era stato fatto prigioniero.
Così furono ordinati gli affari nel settentrione: fu finalmente liberata anche la Macedonia dal giogo della monarchia, e la Grecia fu di fatto libera più che non lo fosse stata mai: non vi esisteva più alcun re.
Ma i Romani non s'accontentarono d'aver tolto ogni forza alla Macedonia. Il senato decise di rendere una volta per sempre innocui tutti gli stati ellenici, fossero essi amici o nemici, riducendoli alla stessa umiliante dipendenza.
Una simile decisione potrà essere giustificabile, ma il modo col quale fu effettuata, particolarmente coi più potenti stati greci, è indegno di una grande potenza, e prova che l'epoca dei Fabi e degli Scipioni era passata.