10. I Celti attaccati nel proprio paese.
La vittoria era completa ed i Romani erano fermamente decisi di premunirsi stabilmente contro simili invasioni, col completo soggiogamento dei Celti di qua delle Alpi.
Nel 530=224 si sottomisero i Boi ed i Lingoni senza opporre alcuna resistenza; l'anno dopo (531=223) gli Anari, sicchè tutta la pianura sino al Po ubbidiva ai Romani.
Maggiori difficoltà furono incontrate per assoggettare la riva settentrionale del gran fiume. Caio Flaminio passò il Po (531=223) nel paese degli Anari appena conquistato (presso Piacenza), ma per passarlo, e più ancora per mantenersi sull'altra sponda, soffrì perdite così gravi e si trovò, col fiume alle spalle, in così difficile situazione, che si vide costretto a trattare col nemico per avere libera la ritirata, cui gli Insubri stoltamente consentirono.
Ma s'era appena tolto da quella posizione, che, portatosi nel paese dei Cenomani, di concerto con questi ricomparve nel cantone degli Insubri dal lato settentrionale.
Troppo tardi s'accorsero i Galli dell'importanza del fatto. Essi tolsero dal tempio della loro dea le insegne d'oro dette le «immobili» e con tutte le loro forze, ascendenti a 50.000 uomini, offrirono battaglia ai Romani.
La posizione di questi era critica; si trovavano in riva ad un fiume (forse l'Oglio), separati dalla loro patria da un paese nemico e tanto pei soccorsi quanto per la linea di ritirata ridotti a fare assegnamento sulla incerta amicizia dei Cenomani. Ad ogni modo non avevano altra scelta. Essi posero i Galli, che combattevano nelle loro file, sulla sponda sinistra del fiume; sulla destra, di fronte agli Insubri, schierarono le legioni e ruppero i ponti onde almeno non essere presi alle spalle dai malsicuri alleati.
Certo è che in questo modo il fiume tagliava loro la ritirata e che non avevano altra via per ritornare in patria fuorchè attraverso l'esercito nemico. Ma la superiorità delle armi romane e della romana disciplina prevalsero e l'esercito si aprì una via attraversando le file nemiche; così la tattica romana riparò ancora una volta gli errori della strategia.
La vittoria era dovuta ai soldati ed agli ufficiali, non ai generali, i quali ebbero gli onori del trionfo soltanto pel favore del popolo in opposizione del giusto decreto del senato.
Gli Insubri avrebbero volentieri fatta la pace, ma Roma voleva una sottomissione assoluta, ed essi non si sentivano caduti così in basso da adattarvisi. Tentarono quindi di opporre resistenza coll'aiuto dei loro compatrioti settentrionali. Con 30.000 mercenari raccolti e colla propria milizia essi fecero fronte ai due eserciti romani, i quali nel seguente anno (532=222) invasero il loro territorio attraversando anche questa volta quello dei Cenomani.
Accaddero ancora parecchi sanguinosi combattimenti; in una diversione tentata dagli Insubri contro la fortezza romana di Clastidium (la presente Casteggio non lungi da Pavia), sulla diritta del Po, il re dei Galli Vidomaro cadde trafitto dalla spada del console Marco Marcello. Se non che, dopo una battaglia già quasi vinta dai Celti, ma infine guadagnata pur dai Romani, il console Gneo Scipione diede l'assalto a Milano, capitale degli Insubri, e l'espugnazione di essa e di Como mise fine alla loro opposizione.