10. Lingua.
Che il vero periodo di formazione della lingua latina e delle altre lingue italiche fosse già chiuso prima di quest'età e che la lingua latina fosse nelle sue parti sostanziali già compiuta intorno ai primi anni della repubblica, ce lo provano le reliquie delle dodici tavole, che senza dubbio ci pervennero assai rimodernate attraverso la tradizione semiorale, ma che ad ogni modo, se contengono un gran numero di vocaboli antiquati e di dura sintassi, particolarmente per l'omissione del soggetto determinato, non presentano quelle difficoltà insuperabili di interpretazione che abbondano nella cantilena dei fratelli Arvali, e si avvicinano molto più alla favella di Catone che il gergo di quelle antiche litanie.
Se i Romani, al principio del settimo secolo, trovavano difficili a decifrare i documenti del terzo secolo, ciò si deve attribuire senza dubbio al difetto di studi paleografici.
In questo tempo, in cui si cominciò a pronunciare sull'applicazione del diritto, e a compilare le leggi, si sarà venuto formando anche lo stile degli affari e degli uffici, il quale, per il lungo rigirare delle formole e dei costrutti convenzionali, per la minuta specificazione d'ogni particolare dei fatti e d'ogni relazione delle cose, per i periodi indeterminabili, se non lo supera, non la cede per nulla allo stile dell'attuale foro inglese che, per acutezza e precisione, è tenuto in gran pregio dagli iniziati, mentre i profani, non giungendo a comprenderne le finezze, l'ascoltano, secondo le disposizioni dell'animo, con rispetto, con impazienza o con disdegno.
In questa medesima epoca cominciò anche una razionale elaborazione delle lingue indigene.
Al principiare di quest'età gli idiomi sabellico e latino erano minacciati, come vedemmo, di declinare nel barbaro, e infatti la soppressione delle desinenze e l'obliterazione delle vocali e delle più fini consonanti facevano, come nel quinto e sesto secolo della nostra èra avvenne nelle lingue romane, sempre maggiori progressi. Ma poco dopo nacque una reazione; nell'idioma osco si separarono di nuovo i suoni fusi insieme della d e della r, nell'idioma latino i suoni della g e della K e ciascuno prese il proprio segno; l'o e l'u, per le quali nell'alfabeto osco mancavano originariamente segni distinti, e che nell'alfabeto latino, sulle prime, erano separati e minacciavano quindi di confondersi, si separarono di nuovo, e nell'osco la lettera i si scinde in due segni distinti per suono e per forma; finalmente la scrittura si accosta più esattamente alla pronuncia, come ad esempio presso i Romani, che sostituivano spessissimo l'r alla s. Le tracce cronologiche ci conducono per queste reazioni al quinto secolo: la lettera g latina, per esempio, non esisteva ancora verso l'anno 300, intorno al 500 sì; il primo della famiglia Papiria, che si chiamò Papirio invece di Papisio, fu il console dell'anno 418 = 336; l'introduzione della lettera r in luogo della s è attribuita ad Appio Claudio censore del 442 = 312. Non vi è dubbio che l'introduzione d'una pronunzia più fine e più spiccata è in relazione colla crescente influenza della civiltà greca, la quale appunto in quel tempo ci si manifesta in tutti i rami della vita italica; e nel modo che le monete d'argento di Capua e di Nola sono molto più perfette che non i contemporanei assi d'Ardea e di Roma, così pare che anche la scrittura e la lingua siano state regolate con maggior speditezza e perfezione nel paese campano che non nel Lazio.
Quanto poco progresso, malgrado le cure che vi si spesero intorno, facessero la lingua e l'ortografia romana alla fine di quest'epoca, lo provano le iscrizioni che abbiamo della fine del quinto secolo, nelle quali domina il massimo arbitrio, particolarmente nell'indicare od omettere le lettere m, d e s in fine della parola e la lettera n in mezzo, e così nel distinguere l'o dall'u e l'e dall'i[9]; è probabile che i Sabelli, rispetto alla lingua, fossero in questo tempo più avanzati, mentre gli Umbri ben poco dovevano aver risentito dalla rigeneratrice influenza ellenica.