27. Le donne.
Un tratto altrettanto caratteristico nella palese decadenza di questo tempo, è l'emancipazione della donna. Dal lato economico le donne si erano da lungo tempo rese indipendenti; nell'epoca presente s'incontravano già appositi procuratori delle donne, i quali assistevano le ricche signore nell'amministrazione dei loro beni e nei loro processi, si imponevano loro con la conoscenza del diritto e degli affari ed estorcevano con ciò più ricche mance e legati che altri girandoloni alla borsa. Ma le donne non si sentivano emancipate soltanto dalla tutela economica del padre e del marito.
Intrighi amorosi d'ogni sorta erano continuamente sul tappeto. Le ballerine (mimae) stavano perfettamente a pari con quelle d'oggi nella varietà e nella virtuosità delle loro industrie; le prime donne, le Citeree come ancora si chiamavano, imbrattavano persino le pagine di storia. Ma alla loro professione, quasi concessa, recò essenzialmente scapito la libera arte delle signore nei circoli aristocratici.
Le tresche amorose nelle prime famiglie erano diventate così frequenti che solo uno scandalo straordinario poteva dare materia ad un pettegolezzo particolare; una procedura giudiziaria pareva in questo caso quasi ridicola. Uno scandalo senza uguale come quello prodotto da Publio Clodio nel 693 = 61 in occasione della festa delle donne in casa del supremo pontefice, benchè mille volte peggiore degli incidenti che cinquant'anni prima avevano condotto ad una serie di sentenze capitali, passò quasi senza investigazione e assolutamente impunito.
La stagione dei bagni – in aprile, quando riposavano gli affari di stato ed i nobili accorrevano a Baia e a Pozzuoli – traeva le sue attrattive principali dalle relazioni lecite ed illecite le quali colla musica, col canto e colle eleganti merende in barca o sulla spiaggia, animavano le gite.
Qui dominavano le donne, senza restrizione; però esse non si contentavano di questo dominio loro spettante di diritto, ma facevano anche della politica; apparivano nelle assemblee dei partiti e prendevano parte col loro danaro e coi loro intrighi alle sfrenate consorterie del tempo.
Chi vedeva queste donne di stato agire sulle scene di Scipione e di Catone e accanto ad esse vedeva come il giovane elegante col mento liscio, colla sua fine voce e col passo saltellante, colla testa e il seno coperti di velo, colla camicia, i manichini e i sandali da donna, copiava la sventata fraschetta – poteva ben raccapricciare dinanzi ad un mondo innaturale nel quale i sessi sembravano dover cambiare le parti.
Come si pensasse nei circoli di questa aristocrazia circa il divorzio lo prova il contegno del migliore e più morigerato uomo, Marco Catone; il quale, su preghiera di un amico desideroso di prender moglie, non esitò affatto a separarsi dalla sua per cedergliela e a sposarla una seconda volta alla morte di quest'amico.
Il matrimonio senza prole si propagava sempre più specialmente nelle più alte classi. Se in esse il matrimonio era da lungo tempo considerato come un peso che si assumeva tutt'al più nell'interesse del pubblico, noi incontriamo ora già in Catone e nei suoi partigiani la massima dalla quale un secolo prima Polibio faceva derivare la caduta dell'Ellade: che sia cioè dovere del cittadino di conservare le grandi sostanze, quindi di non procreare troppi figli.
Dove erano i tempi nei quali per i Romani la qualifica di procreatori di figli (proletarius) era un titolo onorevole?
In seguito a queste condizioni sociali la schiatta latina in Italia scompariva in modo spaventoso, e nel bel paese si aveva in parte la emigrazione parassita, in parte un vero deserto. Una ragguardevole parte della popolazione d'Italia accorreva all'estero. Già la somma della capacità e delle forze lavoratrici che richiedeva la provvista di impieghi e di presidî italici su tutto il territorio del Mediterraneo sorpassava le forze della penisola, tanto più che gli elementi mandati perciò all'estero andavano in gran parte perduti per sempre per la nazione.
Poichè quanto più il comune romano diventava un vasto regno di molte nazioni, tanto più la reggente aristocrazia si disabituava a considerare l'Italia come la sua patria esclusiva; si aggiunga che una gran parte della gioventù chiamata sotto le armi o arruolatasi era stata distrutta nelle molte guerre, principalmente nella sanguinosa guerra civile, ed un'altra si era completamente resa straniera alla patria a causa del lungo servizio sotto le armi.
Come il servizio pubblico così anche la speculazione teneva una gran parte dei possidenti di latifondi e quasi tutta la classe dei commercianti se non per tutta la vita, però sempre per lungo tempo, occupata fuori del paese, e disavvezzava particolarmente quest'ultima dal vivere cittadino nella madre patria, e da quello della famiglia, condizionato a molti doveri, demoralizzandola con la vita nomade.
Come risarcimento a ciò, l'Italia conservava in parte il proletariato degli schiavi e dei liberti, in parte gli operai e i trafficanti dall'Asia minore, dalla Siria e dall'Egitto, i quali pullulavano particolarmente nella capitale e più ancora nei porti delle città di Ostia, di Pozzuoli e di Brindisi. Ma nella più grande e importante parte d'Italia non si effettuava nemmeno un tale risarcimento di elementi puri come impuri, e la popolazione scompariva a vista d'occhio.
Ciò avveniva prima di tutto nei paesi pastorizi come nell'Apulia, la terra promessa per l'allevamento del bestiame, detta dai contemporanei la parte meno popolata d'Italia, e nei dintorni di Roma, dove la campagna, a causa dell'agricoltura in diminuzione e della crescente malaria si spopolava ogni anno di più. Labico, Gabio e Bovilla, una volta amene città provinciali, erano così decadute che era difficile di trovarvi rappresentanti per la cerimonia della festa latina.
Tuscolo, sebbene ancor sempre uno dei più ragguardevoli comuni del Lazio, consisteva ormai quasi soltanto in alcune famiglie nobili che vivevano nella capitale, ma conservavano la loro cittadinanza tuscolana, e il numero dei suoi concittadini elettorali era molto inferiore persino ai piccoli comuni dell'interno d'Italia.
La schiatta degli uomini atti alle armi si era in questo paese, sul quale Roma aveva fatto essenzialmente assegnamento pei suoi eserciti, così completamente estinta, che in paragone delle condizioni presenti si leggeva con stupore e forse con raccapriccio la narrazione favolosa della cronaca delle guerre degli Equi e dei Volsci.
Ma non dappertutto le condizioni erano così difficili, e non lo erano specialmente nella rimanente parte dell'Italia centrale e della Campania; ma ciò nonostante, Varrone si doleva dicendo che «tutte le città d'Italia una volta popolatissime fossero deserte».
Questo quadro dell'Italia sotto l'oligarchia è un quadro raccapricciante. La fatale antitesi tra il mondo dei mendicanti e il mondo dei ricchi non vi era affatto attenuata o mitigata. Quanto più chiaramente e penosamente essa era sentita dalle due parti, quanto più la ricchezza saliva a vette vertiginose, quanto più profondo si apriva l'abisso della miseria, tanto più frequentemente in questo mondo instabile della speculazione e della fortuna qualcuno veniva lanciato dal nulla alla potenza e di nuovo dalla potenza al nulla.
Quanto più questi due mondi si avversavano, tanto più si incontravano per distruggere la vita domestica, perno e nerbo di ogni nazionalità, nella medesima pigrizia e dissolutezza, nella stessa dissipazione e nella stessa codarda indipendenza, nella stessa corruzione diversa soltanto nella tariffa, nella stessa capacità a delinquere, nello stesso desiderio di fare la guerra alla proprietà.
Ricchezza e miseria intimamente congiunte cacciano gli Italici dall'Italia e riempiono metà della penisola d'un formicolio di schiavi e l'altra metà d'uno spaventevole silenzio. È un quadro orrendo ma non è caratteristico; dappertutto dove il dominio dei capitalisti si sviluppò completamente in uno stato di schiavi esso disertò in ugual modo la bella creazione di Dio.
Come i torrenti brillano di diversi colori, ma le cloache si vedono uguali dappertutto, così anche l'Italia dei tempi di Cicerone assomiglia essenzialmente all'Ellade di Polibio, e meglio ancora alla Cartagine del tempo di Annibale, dove in modo affatto simile il capitale che dominava onnipotente aveva rovinato il ceto medio, fatto salire al massimo splendore il commercio e l'economia dei latifondi, ed infine condotta la nazione ad una putredine morale e politica intonacata d'una luccicante vernice.
Tutto ciò che il capitale ha cagionato nel mondo odierno di gravi danni alla nazione ed alla civiltà, rimane così inferiore agli errori degli antichi stati di capitalisti, quanto l'uomo libero, per povero che sia, rimane superiore agli schiavi; e solo quando sarà maturato il seme di drago dell'America settentrionale, il mondo avrà nuovamente da raccogliere simili frutti.