6.Riforme volute dalla nobiltà.
In questa situazione politica, appoggiata particolarmente sul senato, sui cavalieri e sulla censura, la nobiltà non solo avocò nelle proprie mani il governo, ma riformò nel suo seno anche la costituzione.
E perciò, allo scopo di sostenere l'importanza delle pubbliche magistrature, ne fu aumentato il meno possibile il numero, proprio quando l'estensione delle frontiere e l'aumento degli affari l'avrebbero invece richiesto.
Non si provvide che scarsamente ai più urgenti bisogni ripartendo gli affari giudiziari, fino allora trattati dal solo pretore, tra due consiglieri giudiziari, uno dei quali assunse le liti vertenti tra i cittadini romani, e l'altro quelle tra i non cittadini o tra cittadini e non cittadini (511=243), e colla nomina di quattro proconsoli per le quattro province d'oltremare: la Sicilia, la Sardegna e la Corsica (527=227), la Spagna citeriore e la Spagna ulteriore (557=197).
Il modo troppo sommario della procedura giudiziaria romana e la crescente influenza della burocrazia furono prodotte in gran parte dalla materiale insufficienza della magistratura romana.
Tra le innovazioni promosse dal governo, le quali, quantunque in generale non alterassero affatto la lettera, ma solo la pratica della costituzione esistente, erano tuttavia innovazioni, si distinsero più recisamente le misure, colle quali fu limitata la libertà delle elezioni; e la nomina ai posti di ufficiale ed agl'impieghi civili si fece dipendere dalla nascita e dall'anzianità; e non come voleva il tenore della costituzione e come esigeva lo spirito di essa, esclusivamente dal merito e dall'abilità.
La nomina di ufficiali di stato maggiore era stata per la massima parte già prima d'allora trasferita dal generale alla borghesia; in quest'epoca fu stabilito che tutti gli ufficiali di stato maggiore della regolare leva annua, e i ventiquattro tribuni di guerra delle quattro legioni regolari fossero nominati nei comizi tributi.
Sempre più insopportabile sorgeva quindi il distacco tra gli ufficiali subalterni, i quali guadagnavano le loro promozioni per mezzo del generale, servendo puntualmente e dando prove di valore, e gli ufficiali superiori, i quali si procacciavano i loro posti privilegiati col mezzo di brighe nei comizi.
Per porre un freno, almeno ai più sfacciati abusi, e impedire che uffici di tanta importanza venissero affidati a giovani inesperti, fu necessario pretendere, per le nomine a posti di ufficiali di stato maggiore, la condizione di aver servito un certo numero di anni.
Ciò non pertanto, dacchè ai giovani delle famiglie nobili fu imposto il tribunato di guerra – il vero perno dell'organizzazione dell'esercito romano – come primo gradino della carriera politica, questo obbligo del servizio militare fu spesso eluso, e la nomina ai posti di ufficiale divenne dipendente da tutti gl'inconvenienti delle brighe democratiche e dell'esclusivismo aristocratico.
Si risolse in una critica mordace a questa nuova istituzione la risoluzione, che nei casi di guerre importanti (come quella del 583=171) si dovesse sospendere l'elezione popolare degli ufficiali di stato maggiore, lasciandone di nuovo la nomina al generale.