8. Terrorismo di Mario.
Le porte della capitale furono aperte. Il console vi entrò con le legioni; ma Mario, richiamando ironicamente la legge del suo bando, si rifiutò di mettere piede in città prima che la legge glielo permettesse, e i cittadini si raccolsero in fretta nel foro per decretarne l'abolizione.
Così egli vi entrò e con lui il regno del terrore. Si era stabilito di non scegliere qua e là delle vittime, ma di abbattere tutti i più distinti uomini del partito degli ottimati e di confiscarne i beni. Furono chiuse le porte e, per cinque giorni e cinque notti la strage continuò senza tregua; quei pochi che si sottrassero con la fuga o furono dimenticati, vennero trucidati nei giorni seguenti, e questa miserabile caccia di uomini durò per più mesi in tutta l'Italia.
Il console Gneo Ottavio fu la prima vittima. Fedele al suo proposito di morire piuttosto che fare la minima concessione agli schiavi, si rifiutò di fuggire, e, ornato del manto consolare, attese sul Gianicolo l'assassino che non tardò ad assalirlo.
Morirono pure Lucio Cesare (console 664 = 90), già festeggiato come vincitore di Acerra; suo fratello Caio, noto come oratore, poeta e piacevole compagno, che colla sua intempestiva ambizione aveva provocato il tumulto di Sulpicio; Marco Antonio (console 655 = 99) dopo la morte di Lucio Crasso incontestabilmente il primo amministratore del suo tempo; Publio Crasso (console 657 = 97) che nella guerra di Spagna e in quella dei federati e ancora durante l'assedio di Roma aveva tenuto con distinta bravura il comando; e in generale un gran numero di uomini rispettabili del partito del governo, fra i quali i ricchi erano specialmente perseguitati dall'avidità degli sgherri.
Assai deplorevole fu la morte di Lucio Merula, che era stato suo malgrado eletto successore di Cinna e che, essendo per questo criminalmente accusato e tratto dinanzi ai comizi, onde prevenire l'inevitabile pena di morte, depose la sacra benda, come era religioso dovere del flamine morente, sull'altare del sommo Giove, di cui era sacerdote, e, apertesi le vene, morì.
E più deplorevole ancora fu quella di Quinto Catulo (console 652 = 102) che in tempi migliori, nella più splendida vittoria e relativo trionfo, era stato appunto compagno di quel Mario che ora pei supplichevoli congiunti dell'antico collega non trovava altra risposta che la monosillabica condanna «Deve morire».
Autore di tutte queste enormità era Caio Mario. Egli designava le vittime e i carnefici – solo per eccezione si osservava una forma di processo, come ad esempio contro Merula e contro Catulo –; spesso uno sguardo o il silenzio con cui accoglieva chi gli veniva innanzi, erano cenni di morte sempre eseguiti all'istante. Con la morte della vittima non cessava la sua vendetta; vietò la sepoltura dei cadaveri, fece appendere – esempio veramente dato da Silla – alla tribuna degli oratori nel foro le teste dei senatori sgozzati; molti cadaveri per suo ordine furono trascinati per il foro, quello di Caio Cesare trafitto di nuovo sul sepolcro di Quinto Vario, probabilmente già accusato da Cesare; abbracciò pubblicamente colui che, mentre egli sedeva a mensa, gli portò la testa di Antonio, e a stento si era prima potuto trattenerlo, volendo in persona rintracciare ed uccidere colle proprie mani il rivale nel suo nascondiglio.
Le sue legioni di schiavi, specialmente una divisione di Ardiei, gli servivano da sicari in questi saturnali della loro libertà, mettendo a sacco le case dei loro antichi padroni, violando e assassinando quanti vi si trovavano.
Gli stessi suoi compagni erano fuori di sè per questo dissennato infuriare; Sertorio supplicò il console di farlo ad ogni costo cessare e anche Cinna ne era spaventato. Ma in tempi come questi la stessa pazzia diventa una potenza; ci si precipita nell'abisso per sottrarsi alla vertigine.
Non era facile arrestare il braccio di questo furibondo vecchio e della sua banda, e meno di tutti ne aveva Cinna il coraggio; egli anzi scelse Mario a suo collega nel consolato per l'anno venturo. Il governo del terrorismo non incuteva molto minore spavento ai più moderati tra i vincitori che al partito dei vinti; soltanto i capitalisti non erano malcontenti che una mano straniera abbattesse una volta per sempre i fieri oligarchi e che nello stesso tempo per le importanti confische e pubbliche aste la miglior parte della preda venisse nelle loro mani. In questi tempi di terrore essi meritarono presso il popolo il soprannome di «insaccatori».