8. Roma alla testa della coalizione greca.
Nella Grecia lo slancio nazionale era naturalmente sfumato da lungo tempo. Facendo assegnamento sull'antica opposizione contro la Macedonia e sulle recenti inavvedutezze ed ingiustizie di cui Filippo si era reso colpevole, non riuscì difficile all'ammiraglio romano Levino di condurre a termine, sotto la protezione dei Romani, una federazione degli stati medi e piccoli contro la Macedonia.
Alla testa della medesima erano gli Etoli, alla cui dieta era intervenuto Levino stesso, guadagnandoseli con l'assicurar loro il territorio acarnano che da lungo tempo desideravano.
Essi strinsero con Roma un trattato, per effetto del quale sottraevano agli altri Greci, per conto comune, popolazioni e territori in modo che il suolo rimanesse ad essi, la gente ed i beni mobili ai Romani.
Ad essi si associarono, nella Grecia propriamente detta, gli stati antimacedoni, o per dir meglio antiachei; così nell'Attica Atene, nel Peloponneso Elide, Messene e principalmente Sparta, la cui decrepita costituzione, appunto in quel tempo, era stata rovesciata da un temerario soldato per nome Macanida, per poter regnare dispoticamente in nome del re minorenne Pelope, fondando un governo da avventuriero appoggiato sulle schiere dei mercenari.
Vi si associarono anche i capi delle tribù semibarbare della Grecia e dell'Illiria, eterni avversari della Macedonia, e finalmente Attalo re di Pergamo, il quale, nella rovina dei due grandi stati greci, in mezzo ai quali egli si trovava, promoveva con avvedutezza e con energia il proprio interesse ed era abbastanza perspicace per mettersi nella clientela romana mentre la sua alleanza aveva ancora qualche valore.
Non è confortevole e nemmeno necessario seguire gli alterni eventi di questa guerra senza scopo.
Filippo, benchè fosse superiore ad ognuno dei suoi singoli avversari e respingesse da ogni parte con energia e con valore personale gli attacchi, pure, in questa malaugurata difensiva, finiva per consumare le sue forze.
Ora doveva marciare contro gli Etoli, i quali in unione colla flotta romana conducevano una guerra di distruzione contro gli infelici Acarnani e minacciavano Locri e la Tessalia; ora un'invasione di barbari lo chiamava nei paesi settentrionali; ora erano gli Achei che chiedevano il suo aiuto contro le schiere dei predoni etoli e spartani; ora il re Attalo e il comandante della flotta romana Publio Sulpizio che minacciavano colle loro forze unite le coste orientali e sbarcavano truppe in Eubea.
La mancanza di un naviglio da guerra paralizzava tutte le mosse di Filippo, e simile mancanza si faceva sentire al punto, ch'egli si volse al suo alleato Prusia, re di Bitinia, e persino ad Annibale, pregandoli di mandargli delle navi. Soltanto alla fine della guerra egli si decise a fare quello che avrebbe dovuto fare sin da principio, ordinare cioè la costruzione di cento vascelli, che però a nulla servirono, se pure l'ordine fu eseguito.
Tutti coloro che conoscevano la situazione della Grecia e che amavano il paese, rimpiangevano la malaugurata guerra, in cui esso consumava le ultime sue forze e precipitava nella estrema miseria; gli stati commercianti di Rodi, Chio, Mitilene, Bisanzio, Atene e persino l'Egitto avevano ripetutamente tentato di entrare come mediatori.
E di fatti, entrambi i partiti avevano tutto l'interesse di vivere in buona armonia. Come i Macedoni così gli Etoli, che erano i più considerevoli fra i confederati romani, avevano molto da soffrire dei disagi della guerra, particolarmente da quando il piccolo re degli Acarnani era stato guadagnato da Filippo e da quando, in conseguenza di ciò, l'interno dell'Etolia era divenuto accessibile alle irruzioni dei Macedoni.
Anche molti degli Etoli andavano a poco a poco riconoscendo la parte disonorevole e rovinosa a cui li condannava la lega con Roma; un grido d'orrore partì dall'intera nazione greca allorchè gli Etoli, d'accordo coi Romani, vendettero come schiave le intere popolazioni greche di Anticira, d'Oreo, di Dime e di Egina.
Ma gli Etoli non erano più liberi; essi avrebbero azzardato molto conchiudendo la pace con Filippo e non avrebbero trovato i Romani affatto disposti a desistere da una guerra, che dal canto loro essi facevano solo con pochi vascelli, mentre i pesi e i danni relativi toccavano essenzialmente agli Etoli; e questo tanto più dacchè le cose prendevano una piega favorevole sia in Spagna che in Italia.
Nondimeno gli Etoli si decisero finalmente a dare ascolto alle città mediatrici e, malgrado gli sforzi dei Romani, fu fatta la pace tra le potenze greche nell'inverno 548-9=206-5.
Così l'Etolia aveva mutato un potentissimo alleato in un pericoloso nemico; ma al senato romano, il quale appunto allora impiegava tutte le forze dello stato, già esausto, per la decisiva spedizione africana, non parve opportuno il momento per punire quel tradimento. Gli sembrò persino più conveniente di terminare la guerra con Filippo con una pace, la quale conservava ai Romani, ad eccezione dell'insignificante territorio degli Atintani, tutti i loro possedimenti sulle coste dell'Epiro, giacchè, dopo la ritirata degli Etoli, i Romani non avrebbero potuto continuare la guerra senza forti sacrifici. Nella sua situazione Filippo doveva stimarsi fortunato di ottenere così favorevoli condizioni; senonchè le medesime rivelavano quello che d'altra parte non era possibile più oltre nascondere, cioè che tutte le indicibili miserie, che dieci anni di guerra condotta con tanta ributtante crudeltà avevano apportato alla Grecia, erano state sofferte inutilmente e che la grandiosa e giusta coalizione ideata da Annibale, e per un momento accettata da tutta la Grecia, era andata irreparabilmente fallita.