20. Umiliazione dei repubblicani.
Il piano per dar vita alla censura andò a vuoto perchè fra la servile maggioranza del senato non v'era nemmeno uno che avesse abbastanza coraggio morale e autorità anche solo per chiedere una simile carica. Invece Milone fu condannato dai giurati (8 aprile 702 = 52), e la candidatura di Catone pel 703 = 51 fu mandata in fumo.
L'opposizione che si faceva coi discorsi e coi libelli, fu colpita dalla nuova procedura processuale in modo che più non si riebbe; la temuta eloquenza giudiziale fu così respinta dal campo politico, e d'allora in avanti sentì il freno della monarchia.
L'opposizione, come si comprende, non era scomparsa nè dagli animi della grande maggioranza della nazione, nè interamente dalla vita pubblica, perciò si sarebbero dovute non solo limitare, ma sopprimere completamente le elezioni popolari, i tribunali dei giurati e la letteratura. Anzi, appunto in occasione di questi avvenimenti, Pompeo colla sua inettitudine e bizzarria contribuì a procurare ai repubblicani, durante la sua dittatura, alcuni trionfi per lui sensibili.
Le misure di partito che gli autocrati prendevano per assicurare il loro potere, furono naturalmente caratterizzate in via ufficiale come disposizioni prese nell'interesse dell'ordine pubblico e della pubblica tranquillità, ed ogni cittadino, che non volesse l'anarchia, era considerato come pienamente d'accordo con esse.
Con questa trasparente finzione Pompeo spinse le cose al punto che nella commissione speciale per l'inchiesta sull'ultimo tumulto, invece di strumenti sicuri elesse i più rispettabili uomini di tutti i partiti e persino Catone, impiegando la sua influenza in tribunale essenzialmente per mantenere l'ordine e per rendere impossibile tanto ai suoi aderenti, quanto ai suoi avversari, le tradizionali scene di schiamazzo che avvenivano in quei tempi nei tribunali.
Questa neutralità del reggente si riconosce nelle sentenze della corte speciale. I giurati veramente non osarono assolvere Milone; ma la maggior parte dei subalterni accusati dal partito dell'opposizione repubblicana, andò assolta; mentre furono condannati irremissibilmente quelli che nell'ultimo tumulto avevano preso parte per Clodio, cioè per gli autocrati fra i quali non pochi dei più intimi amici di Cesare e dello stesso Pompeo, persino il loro candidato consolare Ipseo e i tribuni del popolo Planco e Rufo, i quali avevano diretto il tumulto nel loro interesse.
Se Pompeo per mostrarsi imparziale non impedì la loro condanna, questa fu una scempiaggine, ed un'altra fu quella che in cose affatto indifferenti egli ledesse le proprie leggi in favore de' suoi amici, come ad esempio nel processo di Planco egli si presentò come testimonio morale e salvò infatti alcuni suoi intimi, uno dei quali fu Metello Scipione.
In questi casi cadeva come al solito in contraddizione con sè stesso: mentre si sforzava di adempiere nel tempo stesso ai doveri del reggente imparziale e del capo-parte, non adempiva nè a questi nè a quelli e si mostrava di fronte alla pubblica opinione giustamente come un reggente dispotico e di fronte ai suoi aderenti con eguale ragione come un capo-parte che non poteva o non voleva proteggere i suoi.
Però benchè i repubblicani si agitassero ancora, e persino, aiutandoli Pompeo coi suoi errori, si sentissero rinvigoriti ogni ora con qualche successo, lo scopo prefissosi dagli autocrati con questa dittatura veniva in generale raggiunto, le redini erano tese più fortemente, il partito repubblicano avvilito e la nuova monarchia assicurata.
Il pubblico incominciava ad abituarvisi. Quando Pompeo poco dopo guarì da una grave malattia, il suo ristabilimento fu salutato da tutta Italia cogli obbligati segni di gioia usati in simili occorrenze nelle monarchie. Gli autocrati si mostrarono soddisfatti.
Dal 1° agosto 702 = 52 Pompeo depose la dittatura e divise il suo consolato col suo cliente Metello Scipione.
FINE DEL VII VOLUME
«Chi mai, se non uno spudorato, un ingordo o un giocatore, può tollerare che Mamurra sia ricco quanto la chiomata Gallia e la lontana Britannia lo erano fino a poco fa? O rammollito Romolo, tu vedi ciò, e lo sopporti? E ora egli, superbo e ben pasciuto, se la spasserà sui cubili di tutti come un bianco colombo o un Adone? O rammollito Romolo, tu vedi ciò, e lo sopporti? E allora sei anche tu spudorato, ingordo e giocatore!
È per questo, o generale unico, che arrivasti all'ultima isola d'occidente? perchè questo sfinito vostro minchione si pappasse due o tre milioni? Non è questa una colpevole liberalità? Non ha egli dissipato abbastanza, divorato abbastanza? Prima scialacquò i beni paterni; poi fu sua preda il Ponto, e terza l'Iberia, nota per l'aurifero Tago. Tremino le Gallie, tremi la Britannia. Perchè favorite questo furfante? che altro può far egli che divorare grassi patrimonî?
Ed è per questo che voi, suocero e genero, i più onesti dell'urbe, avete mandato tutto in rovina?».
Mamurra da Formia, favorito di Cesare e durante le guerre galliche per qualche tempo ufficiale nel suo esercito, era ritornato alla capitale probabilmente poco prima della composizione di questa poesia ed era allora probabilmente occupato nella costruzione del suo palazzo sul monte Celio, di cui tanto si parlava e per cui si spendevano somme enormi. Il bottino iberico si riferiva al governo di Cesare nella Spagna ulteriore, mentre Mamurra si sarà trovato nel suo quartiere generale, come più tardi certamente nella Gallia; quello pontico si riferisce probabilmente alla guerra di Pompeo contro Mitridate, poichè secondo l'allusione del poeta, non soltanto Cesare arricchì Mamurra. Meno maliziosa di questa velenosa invettiva (Svet., Caes., 73) sentita da Cesare amaramente è un'altra poesia di questo poeta scritta press'a poco nello stesso tempo, che può trovare qui il suo posto, perchè colla patetica sua prefazione ad una tutt'altro che patetica commissione si prende a motteggiare con molto garbo lo stato maggiore dei nuovi autocrati Gabinio, Antonio ed altri, i quali dal nulla si erano avanzati rapidamente nel quartier generale. Si ponga mente che fu scritta quando Cesare combatteva sul Reno e sul Tamigi e quando si stava disponendo per le spedizioni di Crasso nel paese dei Parti, di Gabinio nell'Egitto. Il poeta, quasi nella speranza di ottenere da uno degli autocrati uno dei posti vacanti, dà a due dei suoi clienti i suoi ultimi ordini prima della partenza
«Furio ed Aurelio, che sareste compagni di Catullo quand'anche egli si spingesse fino all'estremo dell'India alle cui spiagge batte il risonante mare d'oriente, o nell'Ircania o nella molle Arabia, o tra gli Sciti ed i Parti lancianti frecce, o al mare che il Nilo colora con sette foci, o quand'anche varcasse egli le Alpi per vedere i trofei del gran Cesare, il gallico Reno e gli orribili lontanissimi Britanni – voi che dovunque mi spinga la volontà degli dei siete pronti a seguirmi, recate queste brevi non dolci parole alla mia fanciulla:
«Viva ella felice coi suoi trecento amanti che tutti accoglie fra le braccia senza amarne veramente nessuno, pur fiaccando a tutti le reni; sull'amor mio non conti più come un tempo, chè cadde per sua colpa, come un fiore che l'aratro troncò sull'orlo del prato».