2. Il teatro.
Verso l'anno 390 = 364 e, cosa notevole, poco dopo che i ludi dati per cura di pubblici ufficiali erano stati prolungati di un giorno, si verificò un'altra novità; nei primi tre giorni della festa romana fu dai magistrati fatto innalzare entro l'ippodromo un palcoscenico di legno, e, a divertimento del popolo, si eseguirono delle rappresentazioni. Perchè le spese non trasmodassero, si stabilì una volta per sempre, a carico del pubblico erario, la somma di 200.000 assi per la festa romana; nè mai si superò questa somma fino al tempo delle guerre puniche.
Se si fosse speso di più, la differenza dovevano pagarla di tasca propria gli edili, a cui era dato per ufficio la celebrazione di questa grande solennità; ma non è verosimile che spesso, e per somme considerevoli, volessero gli edili largheggiare con la loro borsa.
Il nuovo palcoscenico rivela col nome l'influenza greca, sotto cui sorse (scaena, σκηνή). Pare che in origine esso non fosse destinato che per suonatori e attori di ogni specie, tra cui i danzatori a suon di flauto, e fra questi gli Etruschi erano tenuti in maggior pregio; ma il fatto è che una pubblica scena si era aperta, e ben presto vi salirono anche i poeti romani. Giacchè nel Lazio non mancavano i poeti. Vagabondi latini, o cantastorie (spatiatores, grassatores) andavano di città in città, di casa in casa, cantando lor frottole (saturae) e accompagnandole con balli figurati e suoni di flauto. Il solo metro, che allora si conoscesse, era il saturnio. Queste canzoni non avevano per argomento fatti o azioni determinate, nè pare che ammettessero il dialogo; e le possiamo immaginare somiglianti alle ballate o tarantelle che si odono ancora oggi per le bettole di Roma. Queste canzoni non tardarono a comparire sulle pubbliche scene, e ad esse dobbiamo il primo germe del teatro romano.
Ma i primordi della poesia scenica, umili in Roma come in ogni altro luogo, furono per di più, fin dal primo apparire, colpiti dalla pubblica riprovazione: cosa che merita d'essere notata. Già le dodici tavole si erano mostrate severe contro queste cantafere, e non solo avevano pronunciato gravi pene contro le canzoni magiche, ma anche contro le satiriche, che mettessero in ridicolo un contadino o venissero cantate innanzi al suo uscio, e vietavano persino i piagnistei delle prefiche nei funerali.
Ma più severa assai delle leggi così intolleranti contro i primi vagiti della poesia fu l'opinione pubblica, e la bigotta austerità dei Romani pronunciò una specie di scomunica morale contro un'arte reputata leggera e venale. Il mestiere di poeta – dice Catone – d'ordinario non era tenuto in pregio; se qualcuno lo esercitava, o come tale s'introduceva ne' banchetti, era considerato un ozioso vagabondo. I danzatori poi, i musicanti e i cantastorie a pagamento, erano colpiti da una doppia riprovazione, e per la natura del mestiere e per il disprezzo che colpiva tutti coloro che non sapessero guadagnarsi da vivere se non mettendosi a servizio d'altri. Perciò, se si tollerava, come bizzarria di giovinezza, il prender parte alle rappresentazioni di carattere burlesco con maschera al viso, come ne correva l'uso, il comparire sulla pubblica scena per mercede o senza maschera si riteneva cosa affatto vituperevole, e tanto il cantante quanto il poeta erano, per questo fatto, messi in un fascio col funambulo e col pagliaccio. Simil gente era d'ordinario dichiarata dai censori inabile a servire nell'esercito e a votare nelle adunanze politiche. La direzione del palcoscenico, inoltre, non solo fu data agli ufficiali incaricati della polizia urbana – ciò che è già abbastanza significativo – ma è verosimile che, sino da quel tempo, questi avessero uno straordinario potere sugli artisti teatrali.
Dopo la rappresentazione gli ufficiali di polizia, non solo giudicavano della capacità degli artisti, e, all'occorrenza, erano larghi di libazioni con gli abili, e di bastonate con i deficienti – ma tutti gli ufficiali pubblici avevano autorità di decretare in ogni tempo ed in ogni luogo pene corporali e prigionia contro i poeti. Di che ne venne che la danza, la musica e la poesia per le pubbliche scene, furono abbandonate alle infime classi dei cittadini, anzi quasi interamente agli stranieri.
La poesia, invero, aveva ancora così poca parte in quei giuochi scenici, da sembrare impossibile che gente straniera sia stata allettata ad introdurvi qualche novità.
Il contrario accadde nella musica, giacchè, tanto per il genere sacro come per il profano, prevalse in Roma la musica etrusca; e perfino l'arte del flauto, tutta latina e già tenuta in gran pregio dai Romani, fu soverchiata dalla musica straniera.
Non è il caso di parlare di letteratura poetica. Nè le commedie con le maschere, nè le recitazioni sceniche possono avere avuto propriamente dei testi appositi, ma d'ordinario venivano improvvisate dall'attore stesso secondo il bisogno.
In quanto ai lavori letterari di quel tempo non si è trovata che una specie di «Opere e giorni» romani, un insegnamento che dà il contadino a suo figlio[2] e le già accennate poesie pitagoriche di Appio Claudio, primi indizi di imitazione ellenica.
Delle poesie di quest'epoca non ci rimase altro che qualche epitaffio in metro saturnio.