29.Disorganizzazione del governo. 

Nello stato, come in ogni organismo, l'organo che più non funziona, diviene anche dannoso; così la nullità delle assemblee del popolo conteneva in sè un pericolo non lieve.

Ogni minoranza del senato poteva, a norma dello statuto, appellarsi ai comizi contro la maggioranza.

Ogni singolo individuo che possedesse la facile arte di predicare agli ignoranti, o che sapesse spargere danaro, trovava la via per farsi una posizione, o per procacciarsi un decreto, cui magistrati e governo erano formalmente tenuti a prestare ubbidienza.

Così venivano eletti quei generali demagoghi, abituati ad abbozzare piani di battaglia sui tavoli delle osterie, che, nell'innato loro genio strategico, solevano guardare con aria di compassione il servizio delle truppe regolari; da ciò quegli ufficiali di stato maggiore, che dovevano il loro grado alle sollecitazioni della capitale, e che, quando gli affari si facevano seri, dovevano venire licenziati in massa: e a queste circostanze si deve attribuire l'esito delle battaglie del lago Trasimeno e presso Canne, e lo scandaloso modo di guerreggiare contro Perseo.

Ad ogni passo il governo vedeva attraversati e paralizzati i suoi ordini dagli incalcolabili plebisciti che non poteva prevenire, e, com'è facile comprendere, appunto quegli ordini che esso era in tutto il suo diritto di emanare.

Ma l'indebolimento del governo e della stessa repubblica era ancora il più lieve dei pericoli prodotti da questa demagogia. Sotto l'egida dei diritti che la costituzione accordava alla borghesia, si spingeva, e incalzava ancor più, la faziosa potenza degl'individui ambiziosi.

Ciò che in apparenza veniva proclamato nello stato come volere della suprema autorità, non era, in via di fatto, per lo più che il volere personale del prepotente; e che mai si poteva attendere da una repubblica nella quale la pace e la guerra, la nomina e la destituzione del supremo duce e degli ufficiali, il pubblico tesoro ed i beni pubblici dipendevano dai capricci della moltitudine e di coloro che fortuitamente la guidavano?

Il temporale non era ancora scoppiato, ma le nubi sempre più dense si accavallavano, e già in mezzo all'afa soffocante s'udiva tratto tratto il rombo del tuono. Si aggiunga che le due tendenze politiche, in apparenza affatto contrarie, coincidevano in modo doppiamente pericoloso nei loro punti estremi, tanto riguardo ai loro fini, quanto riguardo ai loro mezzi.

La politica dei nobili ereditari, e la demagogia, si facevano una concorrenza egualmente pericolosa col proteggere ed incensare la plebe.

Gaio Flaminio fu considerato dagli uomini di stato della successiva generazione come colui che aprì il sentiero per il quale si fece strada la riforma dei Gracchi, e – ci sia permesso di aggiungere – più tardi la rivoluzione monarchico-democratica.

Ma anche Publio Scipione, benchè primeggiasse fra la nobiltà per orgoglio, per avidità di titoli e di clientele, nella sua politica personale e quasi dinastica contro il senato, faceva assegnamento sulla moltitudine, ch'egli sapeva non solo sedurre coll'aureola della sua individualità, ma trarre a sè colle distribuzioni di cereali, e faceva pure assegnamento sulle legioni, delle quali sapeva procacciarsi il favore con mezzi leciti ed illeciti, e particolarmente sui suoi clienti, nell'alta e nella bassa sfera, che gli erano personalmente devoti.

Soltanto il chimerico misticismo, sul quale si appoggiavano tanto le attrattive quanto le debolezze di quest'uomo singolare, potè far sì ch'egli non abbandonasse interamente la credenza di non essere, e di non voler mai essere altro, che il primo cittadino di Roma.

Tanto sostenere la possibilità di una riforma, quanto negarla sarebbe opera ardita; non v'è dubbio che vi fosse urgente necessità di una riforma radicale nel capo e nelle membra, e che da nessuna parte s'era fatto un serio tentativo per ottenerla. Non si può però negare che qualche cosa si sia fatta, individualmente, dal senato e dall'opposizione cittadina.

Tanto in quello come in questa, le maggioranze avevano ancora dei buoni sentimenti, e spesso si tendevano le mani attraverso l'abisso che teneva divisi i due partiti, per allontanare di comune accordo i mali peggiori.

Siccome però non se ne arginavano le sorgenti, riusciva di ben poco giovamento che i buoni spiassero con sollecitudine il rauco muggito della gonfia marea e si studiassero di opporvi argini e dighe, mentre anch'essi s'accontentavano di mezzi palliativi e non impiegavano in tempo utile e nella debita misura nemmeno questi fra i quali, i più importanti, erano il miglioramento della giustizia e la ripartizione dei beni pubblici, contribuendo così a preparare un cattivo avvenire ai loro successori.

Avendo trascurato di dissodare il campo a tempo debito, vi seminarono il loglio anche coloro che non lo volevano seminare.

Alle generazioni che sopravvissero alle procelle della rivoluzione, il tempo che seguì la guerra annibalica parve l'età dell'oro di Roma, e Catone il modello dell'uomo di stato dei Romani.

Quel tempo era piuttosto la calma che precede la tempesta, e l'epoca delle mediocrità politiche, tempo come quello di Walpole in Inghilterra; ma a Roma non viveva un Chatam per infondere di nuovo la vita nelle viscere della nazione.

Ovunque si volga lo sguardo, dappertutto si scorgono screpolature e fenditure nel vecchio e nel nuovo edifizio; si vedono gli operai solleciti ora a turarle ora ad estenderle; ma non si scorge alcuna traccia di preparativi per intraprendere seriamente sia la rinnovazione sia la ricostruzione, ed ora non si tratta più di sapere se questo edificio si sfascerà, ma solo quando ciò avverrà.

In nessun'epoca la costituzione di Roma è rimasta così stabile nella forma, come in quella che corse dalla guerra per la Sicilia alla terza guerra macedonica ed una generazione dopo; ma la stabilità della costituzione era anche qui, come dappertutto, non una prova di salute dello stato, ma il segnale dell'incipiente sua malattia e la calma foriera della rivoluzione.

[1] Tutti questi distintivi si concedevano probabilmente in origine soltanto alla nobiltà propriamente detta, cioè ai discendenti agnati di magistrati curuli, benchè, come suol avvenire per simili decorazioni, coll'andar del tempo, poi siano state estese assai di più. Una prova speciale ne è l'anello d'oro, che nel quinto secolo era portato soltanto dalla nobiltà (Plin., N. h. 33, 1, 18); nel sesto da tutti i senatori e dai loro figli (Liv., 26, 36); nel settimo da tutti coloro che avevano rango di cavaliere; nel tempo degli imperatori da tutti i nati liberi; ne sono anche prova i finimenti del cavallo guarniti d'argento, che ancora durante la guerra annibalica spettavano solo alla nobiltà (Liv., 36, 36); la guarnitura di porpora della toga, che in origine spettava solo ai figli dei magistrati curuli, poi anche a quelli dei cavalieri, più tardi a quelli di tutti i nati liberi; finalmente – però già al tempo della guerra annibalica – persino ai figli dei liberti (Macrobio, Sat. 1, 6). Lo strato porporino sulla tunica (clavus) era – come si può provare – il distintivo dei senatori e dei cavalieri, quelli lo portavano largo (donde laticlavio), questi stretto; così la capsula di oro dell'amuleto (bulla) era portata solo come distintivo dai figli dei senatori al tempo della guerra annibalica (Macrobio in altri luoghi, Liv., 26, 36), al tempo di Cicerone, come distintivo, dai figli dei cavalieri (Cic., Verr. 1, 58, 152); le classi inferiori invece portavano l'amuleto di cuoio (lorum). Sembra però che vi siano delle accidentali lacune nella tradizione, e che nei primi tempi anche il clavus e la bulla siano stati distintivi esclusivamente della nobiltà.
[2] Plin., N. h. 21, 3, 6. Il diritto di comparire inghirlandato in pubblico si otteneva segnalandosi in guerra (Polib., 6, 39, 9. Liv., 10, 47); il fregiarsi arbitrariamente con una corona era considerato come un reato eguale a quello, di cui si sarebbe al giorno d'oggi imputabile colui, che senza autorizzazione, si fregiasse di un ordine militare o cavalleresco.
[3] Ne rimasero quindi esclusi il tribunale di guerra avente potere consolare, il proconsolato, la questura, il tribunato del popolo e parecchie altre cariche. Quanto alla censura, pare che, ad onta della sedia curule dei censori (Liv., 40, 45, v. 27, 8), essa non fosse considerata carica curule; in appresso, quando soltanto il consolare poteva diventare censore, la questione non ebbe più alcun interesse pratico. L'edilità plebea non si annoverava certamente, almeno nella sua origine, fra le magistrature curuli (Liv., 23, 23); può darsi però che più tardi essa vi fosse inclusa.
[4] L'ipotesi corrente, secondo la quale le sole sei centurie nobili contassero 1200 cavalli e tutta la cavalleria ne numerasse quindi 3600, non regge. Il metodo di determinare il numero dei cavalieri dal numero dei raddoppiamenti notati negli annalisti è erroneo; non è provata con evidenza nè la prima cifra, che si trova soltanto nel passo di Cicerone, De rep. 2, 20, riconosciuto erroneo dagli stessi propugnatori di questa opinione, nè la seconda, che non si trova assolutamente negli autori antichi. Parla viceversa in favore dell'ipotesi accennata nel testo e più di tutto, la cifra emergente dalle stesse istituzioni, non appoggiata a sole attestazioni; poichè è certo che la centuria conta cento uomini e che in origine furono tre centurie di cavalieri, poi sei e che dopo le riforme di Servio furono portate finalmente al numero di diciotto. Le attestazioni non si scostano che apparentemente da questa opinione. L'antica e coerente tradizione, sviluppata da Becker, 2, 1, 243, non ammette le diciotto centurie patrizio-plebee sibbene le sei centurie patrizie della complessiva forza di 1800 uomini; la quale tradizione è seguita evidentemente da Livio 1, 36 (secondo la sola lezione manoscritta ammissibile e che non può venir corretta, con periodi isolati di Livio) e da Cicerone loc. cit. (secondo la sola lezione grammaticalmente ammissibile MDCCC; v. Becker, 2, 1, 24). Ma appunto Cicerone indica nello stesso tempo molto giudiziosamente, che tale in generale debba considerarsi la forza della cavalleria romana di quell'epoca. Il numero totale fu posto in luogo della parte maggiore con una prolepsi, di cui usavano spesso gli antichi annalisti non troppo riflessivi. Così appunto si assegnano al comune dei primi tempi 300 cavalieri invece di 100, includendo per anticipazione il contingente dei Tizi e dei Luceri (Becker, 2, 1, 138). La proposta di Catone, finalmente, di aumentare il numero dei cavalli dei cavalieri sino a 2200 (p. 66 Jordan) è una conferma tanto evidente della suespressa opinione, quanto una non meno decisa confutazione dell'opposta. La cavalleria cittadina si divideva quindi in sessanta torme di trenta uomini ciascuna, e con questa divisione combina benissimo ciò che conosciamo delle torme equestri dei tempi degli imperatori: poichè non meno universale che infondata è l'ipotesi, che allora i cavalieri fossero stati ridotti a sei torme, ciascuna capitanata da un sevir (sestumviro) equitum romanorum (Becker, 2, 1, 261, 268). La tradizione non fa cenno del numero delle torme; siccome si deve però ritenere con certezza, che tutti i cavalieri romani erano divisi in torme, così sembra, che il numero di sessanta sia piuttosto troppo piccolo che troppo grande. Se nelle iscrizioni sono menzionati soltanto i primi numeri che vanno sino alla quinta od alla sesta torma, questa preferenza si spiega semplicemente con la particolare considerazione di cui godevano le prime; ciò è provato dalle iscrizioni, dove noi incontriamo soltanto il tribunus a populo elaticlavius, il iudex quadringenarius, e giammai il tribunus rufulus e angusticlavius, il iudex ducenarius. E consta ancora meno che ogni torma avesse un solo sestumviro e che il loro numero si limitasse a sei. I sei condottieri, che il regolamento dell'esercito assegna ad ogni torma (Polib., 6, 25, 1), i decurioni e gli optiones di Catone (cfr. p. 39 Jordan) saranno stati piuttosto questi sestumviri, e quindi vi saranno stati sei volte tanti sestumviri quanti erano gli squadroni di cavalleria. Il magister equitum, che nei primi tempi dei re e della repubblica non era una carica permanente, risorse col titolo di princeps iuventutis. Astrazion fatta dai contingenti dei sudditi italici ed extra italici, la cavalleria ordinaria dell'esercito romano si componeva degli equites equo pubblico o equites legionarii; gli equites equo privato componevano le divisioni dei volontari o di punizione.
[5] La stabilità dell'aristocrazia romana si può chiaramente seguire, e in particolar modo per le famiglie patrizie, nei fasti consolari ed edilizi. Come è notorio, il consolato fu occupato dall'anno 388 al 581 (ad eccezione degli anni 399, 400, 401, 403, 405, 409, 411, nei quali entrambi i consoli furono patrizi) sempre da un patrizio e da un plebeo. I collegi degli edili curuli si componevano esclusivamente di patrizi negli anni dispari di Varrone e si conoscono pei sedici anni 541, 545, 547, 549, 551, 553, 555, 557, 561, 565, 567, 575, 585, 589, 591, 593.
Questi consoli ed edili patrizi, rispetto alle famiglie, si dividono come segue:
Consoli Consoli Edili curuli di questi
388-500 501-581 16 collegi patrizi
Corneli 15 15 14
Valeri 10 8 4
Claudi 4 8 2
Emili 9 6 2
Fabi 6 6 1
Manli 4 6 1
Postumi 2 6 2
Servili 3 4 2
Quinzi 2 3 1
Furi 2 3 —
Sulpici 6 2 2
Veturi — 2 —
Papiri 3 1 —
Nauti 2 — —
Giuli 1 — 1
Fosli 1 — —
—— —— ——
70 70 32
Le quindici o sedici famiglie dell'alta nobiltà, che ai tempi delle leggi licinie erano potenti nella repubblica, si sono mantenute, sebbene talvolta fossero obbligate a ricorrere all'adozione, durante i seguenti due secoli, anzi sino che durò la repubblica, senza un notevole cambiamento. Nel circolo della nobiltà plebea entravano, di tempo in tempo, nuove famiglie; ma nei fasti plebei dominano ancora per tre secoli le antiche famiglie dei Licini, dei Fulvi, degli Attili, dei Domizi, dei Marzi, dei Giuni.
[6] [L'autore, che ha relegato nel campo della leggenda la tradizionale eroica fine di Attilio Regolo qualificando come «orpello sgradevole, che stona colla storia vera e reale» (v. vol. III, pag. 60, nota) gli aneddoti del genere, si prolunga poi su questo episodio di ferocia che non è nè più provato nè più verosimile della feroce fine che i Cartaginesi avrebbero inflitto a Regolo. E va poi notato che, mentre l'episodio di cui trattasi è, in ogni caso, riferibile ad un individuo (poi punito dal censore!), quello di Regolo è imputabile ad un governo. Quanto ad atti di crudeltà del governo di Roma si ricordi Livio 1, 28, il quale, dopo aver descritto il supplizio di Mezio Fufezio, violatore d'un solenne giuramento, esprime l'orrore degli spettatori (Avertere omnes ab tanta foeditate spectaculi oculos) ed esclama: Primum ultimumque illud supplicium apud Romanos exempli parum memoris legum humanarum fuit; in aliis gloriari licet, nulli gentium, mitiores placuisse poenas. (Fu questo il primo ed ultimo supplizio che presso i Romani desse un esempio di dimenticanza delle leggi d'umanità; negli altri casi Roma può gloriarsi d'aver applicato pene più miti di quelle d'alcun altro popolo)]. (Nota del traduttore).
[7] Le spese relative erano però, per la maggior parte, addossate ai frontisti. Non era abolito l'antico sistema delle prestazioni personali e quindi accadeva non di rado che si togliessero gli schiavi ai possidenti per farli lavorare alla costruzione delle strade. (Catone, de r. r. 2).
[8] In occasione della fondazione delle colonie cittadine di Potenza e di Pesaro fu, come è notorio, dal triumviro Quinto Fulvio Nobiliore, in questo modo fatto dono della cittadinanza ad Ennio da Rudia (Cic., Brut. 20, 79), in conseguenza di che, seguendo l'usato costume, egli assunse i1 prenome di Quinto dal triumviro. I non-cittadini incaricati di prender parte alla fondazione d'una colonia cittadina non acquistavano, almeno in quest'epoca, la cittadinanza romana di diritto in virtù della missione benchè spesso se l'arrogassero (Liv. 34, 42), ma i magistrati incaricati della fondazione di una simile colonia avevano, in forza d'una clausola inserita di volta in volta nel relativo plebiscito, la facoltà di conferire la cittadinanza ad un certo numero di persone (Cic., pro Balbo, 16, 48).
[9] Nel suo trattato De re rustica, che si riferisce notoriamente ad una sua tenuta nel distretto di Venafro, Catone manda a Roma per la discussione giudiziaria soltanto quei processi che possono sorgere da un caso determinato: quando cioè il padrone del feudo affitta il pascolo invernale al possessore d'un gregge di pecore, ed ha quindi da fare con un fittavolo, il quale d'ordinario non ha il suo domicilio in paese (c. 149). Da ciò si deduce che, già ai tempi di Catone, le liti sorte da contratti stipulati con individui domiciliati in paese, non si decidevano a Roma, ma dai giudici locali.
[10] L'epoca della costruzione del circo è provata. Nessuna antica tradizione parla dell'origine dei giuochi plebei, (non essendo attendibile quanto dice il falso Asconio, p. 143 Orelli). Essendo però stati celebrati nel circo Flaminio (Val. Mass. 1, 7, 4) certamente l'anno 538=216 quattr'anni dopo la sua costruzione (Liv. 23, 30), risulta abbastanza provato quanto fu detto sopra.
[11] I giuochi apollinari furono istituiti l'anno 542=212 in seguito ad una specie di oracolo di un Marco, il quale dopo la battaglia di Canne dichiarava che, per scacciare il nemico e liberare il popolo da un contagio propagatosi, si dovessero istituire giuochi sacri da celebrarsi annualmente in onore di Apollo.
[12] Il primo non dubbio esempio dell'assunzione di un simile soprannome è quello del console Manio Valerio Massimo 491=263, il quale, come vincitore di Messina, prese il nome di Messalla; è falso che il console del 419=335 abbia, nello stesso modo, preso quello di Caleno. I soprannomi di Massimo nella famiglia dei Valeri e dei Fabii, non sono precisamente analoghi.
Storia di Roma
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